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    Il sonno della politica genera tecnici

    Mario Draghi Credits: ANSA
    Di Stefano Mentana
    Pubblicato il 3 Feb. 2021 alle 11:59 Aggiornato il 3 Feb. 2021 alle 15:46

    “Io non volevo solo partecipare alle feste, volevo il potere di farle fallire”. Questa celebre frase pronunciata da Tony Servillo/Jep Gambardella nel film da Oscar di Paolo Sorrentino è, suo malgrado, tra le più inflazionate durante una crisi di governo. Eppure, quando c’è di mezzo la politica, sarebbe più opportuno riprendere un’altra frase presa da un altro film di Sorrentino con Servillo protagonista, che spiega meglio ancora come funzionano certi passaggi della politica.

    Il film è “Il Divo”, e la scena è quella ambientata mentre i vari leader politici stanno interloquendo per decidere chi eleggere presidente della Repubblica nel 1992. Paolo Cirino Pomicino, magistralmente interpretato da Carlo Buccirosso, entra nella stanza in cui Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani stanno decidendo il da farsi, dicendosi: “Se c’è la candidatura dell’amico Arnaldo, la mia non esiste”, “Se c’è la candidatura dell’amico Giulio, la mia non esiste”. Tornato nei corridoi di Montecitorio, Cirino Pomicino illustra la situazione ai notabili presenti dicendo che “Si vogliono candidare tutti e due”. L’essenza di come ci si muove in parlamento, spiegata con una semplice scena.

    La Politica è e rimane in ogni caso l’arte del governo dei cittadini e della cosa pubblica, nell’interesse prima di tutto delle persone. Ma su quale sia l’interesse, ognuno ha legittime visioni diverse, ed è così che ognuno ha la legittima ambizione di far prevalere la propria posizione attraverso le elezioni e attraverso i propri rappresentanti. Questi ultimi devono giocare la loro partita, attraverso una dialettica che è fatta soprattutto di strategia e tattica, più simile a una partita a scacchi che a un dibattito pubblico.

    Ed è così che abbiamo visto PD e Cinque Stelle mostrare fin troppo platealmente il loro obiettivo, ovvero il reincarico a Conte. Perseguito in maniera talmente palese da lanciare una caccia ai responsabili che non ha portato risultati, se non quello di far decidere a tutti di prendere tempo. Proprio come Salvini nella crisi del Papeete, che ha fatto capire a tutti che voleva andare a elezioni e diventare premier.

    Qual era in questa crisi l’obiettivo di Renzi? Non l’ha mai detto espressamente, ma possiamo serenamente dire che tra ciò a cui aspirava l’ex premier c’era la rimozione di Giuseppe Conte dalla guida dell’esecutivo. Conte rappresentava un investimento per l’alleanza PD-M5S, nata come accordo di comodo ma trasformatasi in alleanza politica, e Renzi è estraneo a quella coalizione, pur avendone sostenuto il governo. Non l’ha mai detto espressamente, fatto che gli avrebbe permesso di cantare vittoria anche con un ministero in più, ma gestendo bene questa partita, sembrerebbe essere riuscito nell’obiettivo. Merito suo? Forse. Demeriti altrui? Sicuramente, come abbiamo visto.

    Che parabola quella di Renzi. Prima rottamatore che irrompeva pesantemente tra le fila dell’obsoleta nomenclatura del centrosinistra, poi leader e premier del PD, di quello che prendeva il 40 per cento prima, di quello che perdeva il referendum costituzionale poi e alla fine di quello che otteneva il minimo storico. Per anni rappresentato come brillante comunicatore, in realtà non è mai stata una sua grande qualità, anzi. Renzi è un pessimo comunicatore, e lo era anche quando era all’apice della popolarità: lo ha dimostrato ad esempio, quando è riuscito a trasformare un referendum sulle trivelle in un test nazionale, quando ha polarizzato l’Italia sul referendum costituzionale, e sfociando nella cronaca più recente, con la gestione del suo viaggio a Riad. Forse anche per questo, sondaggi alla mano, è uno dei leader meno popolari del panorama politico italiano e il suo nuovo partito, Italia Viva, balla intorno al quorum del 3 per cento.

    Eppure lo stesso Renzi sembra conoscere molto bene quelle regole della dialettica politica che ci siamo detti, e da quando è subentrato a Enrico Letta nel 2014, nella gestione di tutte le crisi di governo c’è il suo determinante zampino.

    Ma perché la politica non sa più fare politica? I fattori sono tanti, e tra questi c’è la fine del rapporto tra eletti ed elettori, così come il progressivo partito del sistema dei partiti. Questi ultimi, per anni, sono stati una scuola che ha formato la classe politica e un rapporto tra cittadini e rappresentanti permetteva a questi ultimi di dover rendere conto a qualcuno, venendo spronati a fare meglio e a saper conoscere le regole della politica, che come abbiamo visto sono fondamentali per qualsiasi provvedimento.

    Varie tappe hanno gradualmente logorato il sistema della Prima Repubblica, senza che ne subentrasse uno di pari livello. La morte di Aldo Moro ha portato a un primo sfaldamento della politica italiana, degenerata con la stagione di “Mani Pulite” e delle stragi di Mafia in cui la classe politica disse per la prima volta “non siamo in grado di fare politica”, aprendo la strada al primo governo a guida tecnica, quello di Carlo Azeglio Ciampi. Una situazione che si è ripetuta nel 2011, quando per affrontare la crisi economica fu chiamato Mario Monti, e nel 2013, quando l’intera classe politica andò dall’87enne Giorgio Napolitano a chiedergli un inedito secondo mandato perché loro non erano stati in grado di eleggere il suo successore. Tutti casi in cui la politica aveva deciso di farsi commissariare.

    Ma a quanto pare il sonno continua, anche quando il mondo è attraversato da una grave emergenza planetaria…e dopo che il governo Conte bis è naufragato, i partiti non sono stati in grado di accordarsi su un nuovo esecutivo, col risultato che anche questa volta la politica rischia di essere delegati a figure che per quanto validissime, ricoprono un altro ruolo. I tecnici, appunto.

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