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    Cara Concita De Gregorio, essere di sinistra significa annullare le distanze tra Harvard e Massa Lubrense

    Di Antonello Ciccozzi
    Pubblicato il 27 Lug. 2022 alle 12:49 Aggiornato il 27 Lug. 2022 alle 14:11

    Dopo aver descritto il tono del premier dimissionario Mario Draghi come quello di uno che, «titolare di cattedra ad Harvard, è stato incaricato di una supplenza all’alberghiero di Massa Lubrense», Concita De Gregorio ha spiegato ai dirigenti scolastici di Massa Lubrense che non avrebbero dovuto sentirsi offesi dalla sua “metafora con paradosso” in quanto il soggetto della frase è Mario Draghi, e, soprattutto, poiché loro sono oggettivamente inferiori ad Harvard.

    Insomma, il fine della giornalista non era quello di individuare e ingiuriare una specifica scuola alberghiera: questa scuola reale non è il soggetto del suo ragionamento, è stata usata come mezzo, come complemento di paragone per attrezzare un’analogia degradante in virtù del suo tangibile basso rango. Le persone reali che ci lavorano e ci studiano e la città reale che la ospita non hanno ragione a sentirsi offese: quelli di Massa Lubrense sono oggettivamente inferiori ad Harvard e possono pertanto essere usati come metro di paragone atto a evidenziare l’eccellenza di un soggetto altro rispetto a loro. È la realtà, non è questione di delicatezza.

    Già prima di questa spiegazione molti sui social avevano subito visto in quella boutade l’ennesima manifestazione classista della mutazione signorile della sinistra italiana, mentre per altri non si trattava di spocchia radical chic ma di realismo: potendo scegliere, tutti manderebbero i figli a studiare ad Harvard, mica a Massa Lubrense. Ci mancherebbe. Non si tratta di fingere che non ci sono luoghi migliori o peggiori, più desiderabili o meno desiderabili, luoghi a cui si vorrebbe approdare, luoghi da cui si vorrebbe fuggire. Non è questione dei luoghi che, potendo, si scelgono, è questione di come e perché si scelgono le metafore. È questione di delicatezza, ma non solo.

    In merito mi è venuto in mente un discorso del 2018 di Donald Trump – subito giustamente bollato come razzista  – su quelli che aveva ribattezzato come shithole countries: i “paesi-cesso” (Haiti e i paesi africani) da cui non accogliere persone, scegliendo invece le persone provenienti da paesi come la Norvegia. D’altra parte, potendo scegliere, chi non sceglierebbe di accogliere un migrante ricco e istruito invece che povero e ignorante? Anche qui, oggettivamente, in Norvegia si sta meglio che in Nigeria. Potendo scegliere chi non sceglierebbe di vivere in un attico al centro di Oslo invece che in una baracca nelle bidonville di Lagos? Non a caso, si sarà notato, la gente tende a migrare da posti brutti e poveri a posti belli e ricchi. 

    Ricordo l’ironia di Massimo Catalano che, nel programma cult “Quelli della notte” sentenziava che «è meglio sposare una donna ricca, bella e intelligente che una donna brutta, povera e stupida». Certo, e, stando alla logica della De Gregorio, si può anche fare pubblicamente nome e cognome della donna brutta, povera e stupida che si scarta: è oggettivamente inferiore, la colpa è sua, non si offenderà mica?

    Volendo ammiccare a una certa moda divulgativa fatta di anglicismi a due termini direi che in simili casi siamo di fronte a manifestazioni di place shaming, di derisione dei luoghi. Ossia, in accordo con l’abitudine di usare il termine di razzismo nella sua accezione più ampia come sinonimo di discriminazione, mi pare che siamo di fronte a un razzismo territoriale, geografico, che non riguarda direttamente le persone ma prevede una gerarchizzazione dello spazio in luoghi ammirabili e luoghi disprezzabili, in luoghi desiderabili e in luoghi deprecabili. I luoghi sono comunque diversi, per cui, sempre declinando certe mode, una postura idealistica da place blindness atta a opacizzare certi dislivelli, cancellandoli solo discorsivamente in un egualitarismo territoriale di comodo lascia il tempo che trova. Lascia il tempo che trova di fronte all’impatto del reale fatto di baratri spesso inquietanti con cui prima o poi si dovranno fare i conti. 

    In tutto questo la differenza sta nel piglio, nelle intenzioni, e dicevo che la questione qui in esame non riguarda i luoghi che si scelgono: il punto è come si scelgono le metafore. Il discorso di destra è un discorso costitutivamente elitarista, volto ad aumentare la distanza tra i luoghi, in un’intenzione di allontanamento, di esclusione rispetto a un confine che si reputa argine contro un’impurità contaminante, di immunitas. Il discorso di sinistra dovrebbe essere un discorso egualitarista volto a ridurre la distanza tra i luoghi, in un’intenzione di avvicinamento, di inclusione, di cura, di communitas. Vale a dire che il discorso che rileva la differenza gerarchica per intenzioni emancipatorie è di sinistra, quello che lo fa in senso umiliante e per allontanare è di destra. Essere di sinistra non significa far finta che Massa Lubrense vale come Harvard ma evitare di parlare di Massa Lubrense come topos di inferiorità. Da una prospettiva concretamente progressista i luoghi subalterni dovrebbero essere chiamati in causa solo in discorsi orientati a un lavoro culturale atto a ridurre la distanza tra essi e i luoghi egemonici, non in poetiche elitariste della distanza che male-odorano di una concezione castale dello spazio e della vita.

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