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    Ma a vincere è ancora una volta l’astensione: così il partito del non voto azzoppa la democrazia (di M. Ainis)

    La fuga degli elettori dai seggi è il sintomo di una crisi istituzionale che mette in pericolo la democrazia: il costituzionalista Michele Ainis spiega su TPI perché è necessario cambiare con urgenza le regole del gioco partendo dalla legge elettorale e introducendo il voto elettronico

    Di Michele Ainis
    Pubblicato il 27 Giu. 2022 alle 09:49 Aggiornato il 27 Giu. 2022 alle 09:50

    Un partito vince, l’altro perde. Succede a ogni elezione, in ogni referendum. Però perdono tutti, se l’elettore se ne infischia dell’eletto. E perde la democrazia, se diventa una chiesa vuota di fedeli. I dati, infatti, sono quantomai eloquenti. Alle amministrative del 12 giugno ha votato il 54,73% del corpo elettorale, un italiano su due. Ai ballottaggi del 26 giugno si è recato alle urne il 42% degli aventi diritto. I 5 referendum sulla giustizia hanno fatto ancora peggio, mobilitando un italiano su cinque: 20,9%, l’affluenza più bassa della storia referendaria. Anche se il record negativo di queste consultazioni spetta a un comune abruzzese, Castelguidone: 278 elettori, un unico votante, che per non sbagliare ha infilato nell’urna una bella scheda bianca. Come nel “Saggio sulla lucidità” di Saramago, apologo sulla crisi del potere.

    I partiti, tuttavia, non se ne curano. Né i mezzi d’informazione, cui spetterebbe un ruolo di denuncia. L’astensionismo tiene banco per un giorno, alla lettura dei dati elettorali; ma il giorno dopo non se ne parla più. L’attenzione è tutta sullo zero virgola guadagnato dall’uno o dall’altro, sulla gara per la leadership di ciascuna coalizione, sulla maglietta che indossa il nuovo sindaco rispetto al suo predecessore. Ma se a Palermo l’affluenza crolla al 42%, il successo di Lagalla in realtà diventa un insuccesso, un deficit di legittimazione popolare, un vuoto di fiducia da parte di quattro cittadini su cinque.

    Insomma, è una democrazia spossata, senza energie vitali, quella di cui siamo inquilini. Ed è una creatura zoppa in tutte e tre le gambe su cui dovrebbe camminare. C’è una crisi, ormai da lungo tempo, degli istituti di democrazia partecipativa, giacché partiti e sindacati raccolgono meno iscritti d’un torneo di briscola. C’è una crisi degli strumenti di democrazia diretta, dato che nell’ultimo quarto di secolo 30 referendum su 34 non hanno raggiunto il quorum di votanti. E c’è una crisi della democrazia indiretta, c’è un ritiro della delega a tutte le assemblee elettive, cui l’astensionismo toglie autorità e vigore. Non a caso il Parlamento, per due volte di fila, non ha saputo trovare un successore al Quirinale, ripiegando sull’elezione dell’uscente.

    Ecco, è a questo punto della crisi che si profila l’urgenza di cambiare le regole del gioco. Con una nuova legge elettorale? Certo, anche perché sarà difficile far peggio del Rosatellum. E tuttavia non basta, non è qui la soluzione. Se i cittadini non frequentano più la casa della democrazia, è la democrazia che deve andare nelle case dei cittadini. Adottando il voto postale, per esempio. Abbattendo i quorum che scoraggiano la partecipazione ai referendum. E soprattutto usando la tecnologia, il nostro nuovo ambiente digitale. Dopotutto, con la raccolta delle firme online, i referendum su eutanasia e droghe leggere avevano ottenuto 330mila sottoscrizioni in tre giorni. Tuttavia il passaggio decisivo sta nel voto elettronico. Perché consente a ciascuno di frazionare il proprio voto, suddividendolo in percentuale fra vari partiti o concentrandolo su un’unica lista; e così scegliendo, insieme al partito, l’alleanza di governo. Ma il voto su Internet funziona in Estonia; l’Italia è una penisola lontana.

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