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Quando le notizie sulle fake news sono esse stesse fake news

Secondo i numeri della Polizia Postale, sarebbero 130 le fake news girate sul web solo nell’ultimo mese. Ma che dimensioni ha realmente il fenomeno?

Di Silvia Sironi
Pubblicato il 6 Mar. 2018 alle 18:40 Aggiornato il 6 Mar. 2018 alle 18:43

Sono anni ormai che si parla di fake news: più il tempo passa, più il fenomeno diventa sfaccettato, rendendolo sempre di più difficile comprensione e categorizzazione.

La volontà e la necessità di trovare una soluzione a questo problema è sempre maggiore, soprattutto nell’accesa campagna elettorale per le elezioni politiche del 2018.

Ma possiamo davvero definirlo un problema? Abbiamo cercato di rispondere a questa domanda con Daniela Ovadia, giornalista scientifico e direttore dell’Agenzia ZOE.

Durante la campagna elettorale, la luce sembra essere puntata non solo sui programmi elettorali dei vari schieramenti politici, ma anche sulle bufale che potrebbero essere state costruite ad hoc per condizionare l’opinione pubblica nel voto del 4 marzo.

Secondo i numeri della Polizia Postale, sarebbero 130 le fake news girate sul web solo nell’ultimo mese (anche se per la verità, andando sul sito della Polizia Postale se ne contano massimo 20). 

La preoccupazione a riguardo potrebbe aumentare se si pensa che paura e sconforto sono le emozioni che hanno accompagnato i giorni successivi alla vittoria di Donald Trump, che sono accresciute quando hanno iniziato a girare notizie su come l’elettorato americano sarebbe stato convinto a votare Trump a causa di fake news pubblicate su Twitter da troll russi.

Stando a uno studio dell’università di Stanford, però, l’impatto dell’influenza di matrice russa sulla vittoria di Trump risulta nettamente inferiore rispetto a quanto suggerito dai media.

Nonostante ciò, la paura della circolazione di informazioni errate è aumentata notevolmente negli ultimi mesi, a tal punto da convincere governi e istituzioni a iniziare veri e propri programmi educativi per insegnare ai cittadini a difendersi dal “mostro cattivo” chiamato web (ad esempio in Italia la presidente della Camera Boldrini ha presentato ad ottobre 2017 il progetto “Basta Bufale” rivolto agli istituti scolastici) .

Come si sa, una paura non è mai razionale, e anche in questo caso sembra che il nemico sia più immaginario che reale.

In un recente studio pubblicato dal Reuters Institute in collaborazione con l’università di Oxford, Rasmus Kleis Nielses ha mostrato come la maggior parte dei più noti siti di fake news in Italia e Francia sono molto meno popolari rispetto ai siti ufficiali di notizie.

Per quantificare questo “molto meno”, basta dire che, secondo lo studio, nessuno dei siti di fake news analizzato ha superato il 3,5 per cento di visitatori mensili, e in parallelo, i siti internet di notizie più popolari in Francia (Le Figaro) e in Italia (La Repubblica) hanno una media mensile di visite di circa il 22,3 per cento e 50,9 per cento rispettivamente.

Nonostante queste chiare differenze in termini di accesso ai siti web, il livello di interazione su Facebook (definito come numero totale di commenti, condivisioni e reazioni) generato da un piccolo numero di fake news ha superato, anche se non di molto, quello di notizie provenienti da fonti ufficiali.

Viene dunque spontaneo chiedersi se l’allarmismo per la circolazione di fake news sia stato e sia tuttora maggiore rispetto al vero e reale impatto che hanno sulla società.

Cosa ne pensi? Vale la pena sforzarsi di sconfiggere un presunto nemico che sembra avere molto meno impatto di quanto venga effettivamente percepito? Non sarebbe meglio impegnarsi a fare informazione di qualità, non badando alle fake news che girano online e non? Qual è secondo te la responsabilità di un buon giornalista in questo frangente?

Gli studi dimostrano che il debunking, cioè il contrasto della fake news attraverso articoli che ne smontino i contenuti, non funziona. Le persone non cambiano idea leggendo un articolo di controinformazione, se già sono convinte.

Però sappiamo anche che esiste il cosiddetto “pregiudizio di ancoraggio”: se un tema è controverso, tendiamo a credere alla prima informazione che abbiamo avuto sull’argomento e facciamo fatica a cambiare opinione.

Ecco perché è essenziale rendere disponibile un’informazione di qualità: non per far cambiare idea a chi già crede alla fake news, ma per evitare che questa si diffonda a macchia d’olio convincendo altri che su quella specifica questione magari non avevano un’opinione precostituita.

Il ruolo del giornalista in questo frangente è complesso, perché non ha il ruolo di fare controinformazione o di educare, ma ha il compito di raccontare il reale, informare sui fatti. Il ruolo del giornalista dovrebbe essere semplicemente quello di fare bene il proprio lavoro.

A tal proposito Facebook ha recentemente iniziato una battaglia contro la diffusione delle notizie false e la disinformazione in Italia. In particolare ha annunciato quattro nuove azioni per creare una piattaforma dove circolino informazioni più accurate, aiutando gli utenti a prendere decisioni più consapevoli su cosa leggere e condividere. Esigenza che pare essere divenuta ancora più forte nel periodo di campagna elettorale. Ricollegandoci al punto precedente, sembra che Facebook abbia identificato una cura prima ancora di valutare la gravità della malattia.

Ritieni che l’intervento di Facebook possa essere effettivamente efficace e portare a dei giovamenti nella qualità delle notizie che diffondono sul web o che sia “tempo perso”?

Non ho un’opinione chiara in merito. Credo che, con piglio molto americano, Facebook abbia dato all’utenza finale uno strumento per combattere la malattia, confidando che al pubblico questo interessi.

Non sono certa che in Italia funzioni così, siamo abituati troppo a delegare queste cose a un’autorità esterna, ma il concetto, di per sé, non mi dispiace. Perseguire l’empowerment del lettore è certamente una strategia intelligente, ma funziona per lettori intelligenti.

Attendo, prima di esprimere un’opinione, perché voglio vedere quali saranno i risultati. Viceversa credo che sarebbe ora di sostenere, anche economicamente, il giornalismo di qualità che faceva del fact checking un punto d’onore.

Nei media statunitensi (ma anche in Francia, Regno Unito o Germania) esistono ancora le figure redazionali dei fact checkers, che verificano gli articoli dei giornalisti per essere certi che i dati siano reali e che le fonti citate siano corrette.

Gli stessi giornalisti non danno per scontate le informazioni che ottengono dalle fonti (siano esse politici o scienziati) ma le verificano personalmente. È l’approssimazione presente sui media tradizionali ad aprire le porte alle fake news grossolane, perché i lettori perdono la fiducia nell’informazione in generale.

La conclusione è che la disinformazione online è sicuramente un fenomeno importante a cui il pubblico, gli editori, i policymakers e altri stakeholders devono prestare seria attenzione, ma in generale i recenti studi evidenziano e suggeriscono che le fake news hanno una minore diffusione di quanto non sia percepito.

Vale dunque la pena chiedersi se tutto il lavoro che si sta cercando di fare per sconfiggere questo male informativo del Ventesimo secolo sia legittimo, o se piuttosto non sarebbe bene investire prima su studi e strumenti che possano valutarne il reale impatto sulla società.

Sicuramente una maggiore educazione al pensiero critico non può che giovare al web, ma anche alle nuove generazioni che si trovano in un periodo storico in cui la bulimia di informazioni molto spesso confonde invece di chiarire.

A cura di Silvia Sironi

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