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“Il M5S non c’è più: è morto e il condono di Ischia ne segna la fine”: l’ex responsabile comunicazione grillino a TPI

Lorenzo Tosa, ex responsabile comunicazione M5S in Liguria

Il commento di Lorenzo Tosa, ex responsabile comunicazione dei Cinque Stelle in Liguria che ha deciso di lasciare il movimento per "motivi di coscienza"

Di Lorenzo Tosa
Pubblicato il 19 Nov. 2018 alle 15:13 Aggiornato il 19 Nov. 2018 alle 16:18

Cinquemila like. Cinquemila persone che da tutta Italia sono passate dalla mia pagina Facebook per manifestare il proprio affetto, la propria solidarietà. Senza contare le migliaia di messaggi, chiamate, Whatsapp, tweet e altrettanti commenti sparsi nell’etere a cui non riuscirò mai a dare una risposta. Il post con cui, tre settimane fa, ho dato le mie dimissioni pubbliche dal Movimento 5 Stelle è stato prima di tutto un atto liberatorio, vero e intimo come un urlo trattenuto in gola per anni.

Ma è stato anche – ora l’ho capito – un piccolo tassello di una storia che ci riguarda tutti. Tutti quelli che non si arrendono, che non si rassegnano alla cattiveria, che rifiutano la barbarie civile, culturale e lessicale in cui è sprofondato questo paese.

Io sono fortunato: pur con fatica, ho potuto scegliere quando scendere. Altri passano una vita intera a odiare il proprio lavoro senza avere la forza, la possibilità, di cambiare. E allora fanno quello che noi umani sappiamo fare meglio quando siamo alle corde: lottare.

Ognuno ha una sua guerra da combattere, una sua prigione personale da cui evadere. Ma quello, credo, che accomuna tutti noi, questa piccola grande comunità di persone, è una certa grazia, un certo istinto naturale per la bellezza che ci circonda, quella innata curiosità per ciò che è diverso da noi, che non conosciamo. Contro – sì, contro, orgogliosamente contro – a chi ci vorrebbe spaventati, diffidenti, egoisti, chiusi in qualche recinto di rassicurante isolamento.

Guardate che qui la politica non c’entra. Stiamo vivendo un’era pre-politica in cui, come nella Macondo di Gabriel Garcia Marquez, bisognerà tornare a dare i nomi alle cose. Ci sarà da riconquistare e difendere principi che ritenevamo non negoziabili. Ci sarà da essere “duri, senza perdere la tenerezza”.

La buona notizia è che siamo tanti, molti più di quanto avrei mai immaginato: qualcuno più incazzato, qualcuno più pragmatico; qualcuno più ottimista e qualcun altro rassegnato. Ma siamo qui, ci siamo. Ci stiamo annusando. Sappiamo genericamente chi siamo, ma abbiamo un’idea chiarissima di chi e che cosa stiamo combattendo. Sembra poco, è un mondo. Tutte le rivoluzioni sono cominciate così.

La cattiva è che non c’è tempo. Le idee vanno e vengono, e di solito si ritirano in fretta per poi ricomporsi, come onde sul bagnasciuga. Ciò che resta nella risacca sono le ferite profonde che si lasciano alle spalle.

Abbiamo trascorso decenni a combattere Berlusconi senza renderci conto che il berlusconismo era già penetrato dentro di noi, come un veleno. Portatori sani di un virus di cui tutti sapevamo tutto, ma di cui nessuno aveva l’antidoto. Eppure, a guardarlo oggi, quello che ti resta addosso è la battuta greve da Bagaglino prima ancora delle leggi ad personam; il Bunga Bunga e i pollai televisivi prima dello zolfo di regime.

L’ombra dell’autoritarismo ha finito per stemperarsi in quella patina di farsa italica che da sempre, anche nelle epoche buie, ci ha preservato dal prenderci troppo sul serio. Oggi, anche a volerla cercare, non c’è più traccia di farsa. C’è la goffa comicità di un tunnel fantasma, dello scatto rubato nell’intimità, del congiuntivo-questo sconosciuto. Ma tutto si brucia e si consuma ad un livello talmente superficiale da non intaccare la profondità della deriva in atto.

È la banalità del male, il negativo di un nuovo regime liquido e spaventoso che non usa la violenza, la legittima. Non spara alle persone, le arma. Non sottomette il popolo, lascia che lo faccia da solo, in una guerra tra poveri che comincia a Lampedusa e arriva sino al confine italo-francese, ovunque ci sia un nemico facile da identificare e abbastanza fragile da non potersi difendere. È un Charlie Chaplin che gioca con un mappamondo tristemente diventato paese, villaggio.

Nel suo grottesco rivelarsi c’è una pervasività e una forza evocativa che travalica ogni consapevole strategia comunicativa: quando Salvini canta Albachiara da Costanzo non sta semplicemente raccontando un’idea di mondo. È lui stesso quel mondo. Lo incarna e lo legittima. Al punto che – oggi lo possiamo dire – dal dopoguerra ad oggi nessun governo o potere politico ha spostato il nostro modo di stare al mondo, di parlare, di curarci e di proteggerci così brutalmente come quello attuale.

E poi c’è una terza notizia, non saprei neppure come interpretarla. Ve la dico così come mi arriva. Ogni egemonia politica e culturale degna di nota porta in sé il germe della sua stessa distruzione. Può restarsene lì, dormiente, anche per anni, a volte decenni, prima di manifestarsi. Vale per i governi come per le multinazionali. Jeff Bezos l’ha detto un paio di giorni fa con una chiarezza sconvolgente: “Amazon prima o dopo fallirà. Il nostro compito è rimandare quel giorno il più possibile”.

Non è questione di se ma quando. In pochi, ad esempio, se ne sono accorti, ma pochi giorni fa è morto il Movimento 5 Stelle. No, non il partito, quello era già morto da un pezzo. In questi giorni è morto qualcosa di molto più profondo e che terrorizza i “grillini e associati” dai tempi della nascita. Nell’ultima settimana, con la virata di De Falco, le dichiarazioni plumbee della Fattori (“terrorismo psicologico”), le epurazioni nord-coreane, è crollato il primo argine della diga.

È franato il mito fondativo che, in modo confuso ma marziale, teneva insieme quel complesso magma lavico di rabbia, fideismo e (sub)cultura del sospetto: la superiorità morale. E, con essa, si è dissolta una certa idea di auto-elevazione etica su cui per anni si è retta la più grande macchina del consenso della storia recente. È morto il voto di pancia: quel gesto di infantile ribellione con cui ognuno di noi, almeno una volta nella vita, è stato tentato di scrivere un gigantesco “vaffanculo” sulla scheda.

Il condono di Ischia segna la fine dell’epoca dell’innocenza e proietta, anche simbolicamente, il M5S in una nuova era: quella della politica politicante, del compromesso al ribasso. Mani e piedi in un fango che ti resta attaccato addosso e in cui è difficile sguazzare per chi è abituato ai territori liquidi del web.

Nello sprofondo morale dei 5 Stelle c’è la parabola di un movimento nato genuinamente anarchico, cresciuto a sinistra e finito per morire a destra: proprio come il paese che sognava di aprire come una scatoletta di tonno. Certo che il destino è beffardo, a volte.

Quando un iceberg così compatto di credenze e leggende condivise si stacca dalla calotta e sprofonda in mare, si produce un’onda in grado di provocare uno tsunami dall’altra parte del mondo. Quell’onda oggi noi non la vediamo. A malapena riusciamo a percepirla, come un rumore di fondo all’orizzonte. Ma è già partita, e non c’è verso di fermarla. Quando a un certo punto si schianterà, sarà già troppo tardi. I danni al tessuto culturale, sociale e civile del nostro paese incalcolabili.

Per quel momento dovremmo farci trovare pronti. L’errore più grande che possiamo fare oggi è sederci e attendere il “cadavere” sulla riva del fiume. E allora qual è il compito per chi oggi si riconosce in un certo grado di valori progressisti, europeisti, di libertà, alternativi a sovranismo e populismo? Qual è la sfida all’orizzonte per questa comunità di persone fiere e spaventate, orfani di qualunque rappresentanza politica?

Questa volta non sarà un voto a salvarci (o, perlomeno, non soltanto) ma piccoli atti quotidiani di disobbedienza civile. Ci salveranno i tanti sindaci Lucano che non si piegano a leggi ingiuste, le Maria Rosaria che affrontano gli “strunz” in Circumvesuviana, l’adolescente che sfida i manganelli della polizia per dire no a un governo adulto e autoritario, i Marco Cappato che conoscono la differenza tra vivere e sopravvivere.

Ci salveranno loro, ci salverà la generazione Antigone, e non è una mera questione anagrafica. È di più: è un modo di sentire, di dare i nomi alle cose. Appunto. Un giorno mi piacerebbe raccontare a mio figlio che quella generazione eravamo noi.

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