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Non è vero che la sentenza della Cassazione va contro la donna ubriaca vittima di stupro

Il Palazzo di Giustizia in piazza Cavour a Roma.

Sentenza della Cassazione: “Se la vittima dello stupro ha consumato consapevolmente alcol in eccesso, non può essere contestata l’aggravante di aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche”. Abbiamo chiesto a un avvocato patrocinante in Cassazione di spiegarci come leggere questa decisione della Corte

Di Clarissa Valia
Pubblicato il 18 Lug. 2018 alle 00:23 Aggiornato il 18 Lug. 2018 alle 10:59

Sono state numerose le critiche in seguito alla sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione che non riconosce l’aggravante di “aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche” agli stupratori di una donna che prima del fatto aveva consumato consapevolmente alcol in eccesso.

Per questo abbiamo chiesto a un avvocato penalista e patrocinante in Cassazione, Giorgia Antonia Leone, attiva nella lotta per la parità di genere, di spiegarci come interpretare questa sentenza e perché la decisione della Corte, a suo avviso, è stata travisata.

Ecco le sue parole nel commento che segue:

“Con la sentenza N. 32462, la Terza Sezione Penale della Cassazione, ha confermato la piena responsabilità penale dei due uomini condannati a 3 anni di reclusione dalla Corte d’Appello di Torino per violenza sessuale su una donna, avvenuta nel 2009, ma ha annullato con rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado sul punto dell’aggravante di “aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche”. Sul presupposto che la ragazza non fosse stata ridotta forzatamente a uno stato di inferiorità, dato che l’ubriachezza era di natura volontaria.

Il codice penale punisce come violenza sessuale, all’articolo 609-bis, la condotta di colui che con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringa taluno a compiere o subire atti sessuali e quella di colui che induca un altro soggetto a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto o traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

L’articolo 609-ter c.p., invece, prevede delle circostanze (dette aggravanti) al ricorrere delle quali la pena prevista in generale per la violenza sessuale è aumentata.

Nello specifico, per il caso che ha interessato la Cassazione, è anche prevista un aggravamento della pena se i fatti sono commessi nei confronti di persona con l’uso di sostanze alcoliche.

I giudici hanno convenuto sine dubio che la donna, vittima di violenza sessuale non ha prestato alcun valido consenso all’atto sessuale subito. Quindi hanno valutato l’alterazione dovuta dall’uso di alcol della donna come un suo stato effettivo di inferiorità psichica o fisica, evidentemente sfruttato dai due stupratori.

Per l’aggravante però avrebbero dovuto essere i soggetti attivi del reato, ossia i due uomini stupratori, a costringere la vittima a bere per poi innescare la violenza sessuale compiuta e non viceversa la donna a bere consapevolmente e intenzionalmente.

La Suprema Corte, pertanto, avendo valutato l’uso volontario di alcol e non forzato da parte della vittima, pur considerando indiscutibile il delitto di violenza sessuale relativamente alla valutazione del valido consenso della parte offesa, che nella fattispecie mancava, non ha ritenuto sussistente l’aggravante.

Negli ultimi anni sulla questione del consenso sono stati fatti molti passi avanti, grazie in particolare alle convenzioni internazionali ed europee approvate in materia, come la Convenzione di Istanbul che è il documento più autorevole a cui fare riferimento.

In Italia si rammenta che solo nel 1996, dopo circa vent’anni di iter legislativo, la legge contro la violenza sessuale classificò questo reato come crimine contro la persona, e non più delitto contro la moralità pubblica e il buon costume.

Oggi si avanza sempre più verso un modello di consenso esplicito, anche se nel non lontano maggio del 2015 il tribunale di Modena aveva assolto tre ragazzi dall’imputazione di violenza sessuale nei confronti di una ragazza ubriaca con la motivazione che: «se è vero che il comportamento passivo della vittima e il fatto che scivolasse nella doccia avrebbero dovuto indurli a sospettare che la stessa avesse perso la lucidità necessaria per presentare un valido consenso all’atto sessuale è altrettanto vero che l’assenza di azioni di respingimento e di invocazioni di aiuto avrebbero potuto ingenerare la convinzione che la sedicenne fosse consenziente».

Invero, però, la sentenza della terza sezione della Cassazione di cui si discute non ha affatto ipotizzato, sotto il profilo del consenso della vittima, una mancanza di responsabilità penale a carico dei due stupratori in quanto la vittima aveva bevuto.

Anzi proprio perché indiscutibilmente resa ancora più vulnerabile dagli effetti dell’alcol, i due carnefici hanno potuto compiere agevolmente lo stupro di gruppo.

Tale sentenza va semmai colta come un’opportunità, preziosa, per mettere in discussione e valutare obiettivamente il sistema del codice penale italiano attualmente in vigore, a cui si è in definitiva attenuta la Suprema Corte nella sua espressione di giudice di legittimità.

Certo è che in casi come questi, con uno scenario sociale di violenza come quello che viviamo, il risultato di una tale pronuncia giudiziaria può essere che la vittima venga percepita come in qualche modo responsabile di ciò che le è accaduto, pur non essendo così, col risultato di magari non dare pieno valore alla volontà di chi subisce violenza e di attribuirle appunto parte della colpa; ma questo effetto sociale di un provvedimento giudiziario, va ragionevolmente e cautamente contenuto nei fatti e nelle norme di diritto a disposizione, semmai sistemicamente discutibili”.

Il commento è a cura di Giorgia Antonia Leone, avvocato penalista di Milano e patrocinante in Cassazione attiva lotta per la parità di genere.

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