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Pestaggi e suicidi nel carcere di Viterbo: dopo l’inchiesta di TPI i cittadini scendono in piazza

Di Laura Bonasera
Pubblicato il 16 Apr. 2019 alle 19:09 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 02:59

“C’è un lager a Viterbo, si chiama Mammagialla“. È il titolo del volantino che annuncia un presidio davanti al tribunale per giovedì 18 aprile, dalle 9 in poi.

A distribuirlo in città è un gruppo di cittadini che, dopo le inchieste giornalistiche, con documenti esclusivi, sui suicidi sospetti e i presunti pestaggi ai detenuti da parte di agenti di polizia penitenziaria per Popolo sovrano-Rai2 e TPI, scenderà in piazza per la prima volta e chiederà verità e giustizia ai magistrati della Procura che stanno lavorando a 4 fascicoli d’indagine.

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Al presidio hanno aderito anche alcuni parenti dei detenuti reclusi al Mammagialla. Da settimane, infatti, il gruppo di attivisti cerca di incontrare davanti i cancelli del carcere le donne, madri o figlie, dei detenuti dopo i colloqui per cercare di coinvolgerle in questa iniziativa.

“Stiamo facendo volantinaggio anche tra i ragazzi, davanti le scuole, coinvolgendo associazioni”, spiega Vanessa Ilariucci, partecipante al presidio. “Vogliamo rompere il silenzio per non essere complici”.

“In questa città esiste un luogo in cui le persone subiscono pestaggi, isolamento, torture che a volte portano alla morte”, scrive il movimento spontaneo di cittadini, “le cure mediche sono negate, la somministrazione di psicofarmaci è quotidiana. Una prigione geograficamente isolata per restare lontana dagli occhi della gente ed essere difficilmente raggiungibile dai familiari dei detenuti”.

“Un carcere sovraffollato in cui si finisce in isolamento per futili motivi, i pestaggi da parte della polizia penitenziaria sono all’ordine del giorno e in cui solo nell’ultimo anno tre persone sono morte in circostanze poco chiare. A Mammagialla il Dap non si fa alcuno scrupolo democratico a mostrare il proprio volto più vero e violento”.

“Vogliamo rompere l’isolamento e l’invisibilità di chi resiste ogni giorno dentro le odiate mura del carcere, massima incarnazione di un’oppressione sociale che riguarda tutti e tutte. Vogliamo farlo in un percorso che faccia sentire la nostra presenza solidale a chi è rinchiuso e ai familiari, la nostra rabbia e determinazione a chi rinchiude, picchia, uccide”.

“Cominciamo dal tribunale di Viterbo luogo in cui ha sede l’ufficio dei giudici di sorveglianza, in teoria responsabili del percorso ‘rieducativo’ dei detenuti, in pratica complici di quanto accade tra quelle mura”, concludono.

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“Vogliamo rendere chiaro ai responsabili di quanto accade dentro le galere e a chi li protegge che nessuno sarà mai dimenticato né lasciato solo. Il carcere non è la soluzione, ma parte del problema”.

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