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    Trump ordina il “blocco totale” delle petroliere da e verso il Venezuela: ecco cosa può succedere ora

    Credit: AGF

    Le ulteriori tensioni tra Washington e Caracas potrebbero avere effetti in tutto il mondo, dal commercio energetico internazionale fino ai conflitti in Medio Oriente

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 17 Dic. 2025 alle 10:18

    Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato un “blocco totale” delle petroliere sanzionate in arrivo e in partenza dal Venezuela, aumentando ulteriormente la pressione economica su Caracas e rischiando di provocare un effetto domino nel già complicato contesto delle tensioni internazionali.
    “Il Venezuela è completamente circondato dalla più grande flotta mai radunata nella storia del Sud America. Non farà che ingrandirsi e per loro sarà uno shock mai visto prima, almeno fino a quando non restituiranno agli Stati Uniti d’America tutto il petrolio, la terra e gli altri beni che ci hanno precedentemente rubato”, ha scritto Trump nella notte sul suo social network Truth, accusando “l’illegittimo regime di Maduro di usare il petrolio estratto da questi giacimenti depredati per finanziare se stesso, il narco-terrorismo, il traffico di esseri umani, omicidi e rapimenti”. “Perciò oggi ordino il blocco totale e completo di tutte le petroliere sanzionate in entrata e in uscita dal Venezuela”. Ma non solo: l’amministrazione degli Stati Uniti, ha annunciato nello stesso post, ha infatti designato il governo venezuelano “come organizzazione terroristica internazionale”. Una mossa che non è piaciuta ovviamente al governo di Nicolás Maduro e che rischia di provocare conseguenze in tutto il mondo.

    La risposta di Caracas
    Da parte sua, Caracas ha definito l’annuncio una “minaccia seria e grottesca” e ribadito la sovranità del Venezuela. “Il Presidente degli Stati Uniti sta tentando, in modo del tutto irrazionale, di imporre un cosiddetto blocco navale militare al Venezuela per rubare le risorse che appartengono alla nostra patria”, ha replicato in una nota il governo del Paese sudamericano. L’ambasciatore venezuelano presso le Nazioni Unite, ha annunciato l’esecutivo locale, “procederà immediatamente a denunciare questa grave violazione del diritto internazionale”.
    Prima dell’annuncio di Trump, proprio Maduro aveva elogiato il Venezuela per aver “dimostrato di essere un Paese forte”. “Abbiamo trascorso 25 settimane denunciando, affrontando e sconfiggendo una campagna di aggressione multidimensionale, che va dal terrorismo psicologico alla pirateria”, ha detto ieri il presidente venezuelano in un discorso tramesso in diretta dalla tv di stato locale. “Abbiamo giurato di difendere la nostra patria e che su questo suolo trionfino la pace e la felicità condivisa”.
    Nelle scorse settimane infatti Trump aveva minacciato addirittura attacchi diretti in Venezuela per far pressione sul governo locale e costringere Maduro a dimettersi. Ora invece emerge che la materia del contendere è l’oro nero del Paese.

    Corsa al petrolio
    L’amministrazione Trump accusa il presidente Maduro di gestire una vasta rete di narcotraffico, senza però fornire prove del coinvolgimento diretto del governo venezuelano nel traffico di stupefacenti. Di conseguenza, a partire da quest’estate il Pentagono ha schierato un’imponente forza militare nei Caraibi, procedendo persino a una serie di raid aerei contro imbarcazioni presumibilmente provenienti dal Venezuela e accusate di trasportare droga, che hanno provocato almeno 95 morti, in violazione del diritto internazionale.
    Da parte sua, Caracas nega categoricamente le accuse, sostenendo che Washington stia cercando di rovesciare il regime per impossessarsi del petrolio nazionale, la principale risorsa del Paese. Negli anni Settanta infatti il governo locale nazionalizzò l’industria del settore e da allora la Petróleos de Venezuela (Pdvsa), di proprietà statale, controlla l’intero comparto. In seguito, sotto la presidenza di Hugo Chavez, Caracas obbligò le aziende energetiche straniere ad accettare, per lavorare nel Paese, di operare in joint venture con la Pdvsa, che mantiene la maggioranza delle società partecipate da soggetti esteri. Ad oggi, la texana Chevron, con sede a Houston, è l’unica azienda statunitense autorizzata a trivellare in Venezuela, grazie a una deroga alle sanzioni concessa nel 2022 dall’amministrazione Biden per far fronte all’aumento dei prezzi energetici negli Usa. Ma per farlo l’azienda americana deve comunque versare una percentuale alla Pdvsa.
    Il Venezuela possiede le più grandi riserve petrolifere al mondo ma a causa delle sanzioni internazionali contro il regime di Maduro non può sfruttarne appieno il potenziale. Questi provvedimenti sono entrati in vigore per la prima volta nel 2005, mentre dal 2019, durante il primo mandato Trump, la Casa bianca blocca di fatto tutte le esportazioni di greggio verso gli Usa da parte della Pdvsa. A marzo di quest’anno poi il presidente Usa ha prima revocato e poi nuovamente concesso la deroga alle sanzioni a Chevron, a condizione che il ricavato non andasse al governo Maduro. Ma, anche dopo l’ultima mossa della Casa bianca, l’azienda ha fatto sapere che le sue attività in Venezuela “proseguono senza interruzioni e nel pieno rispetto della legge”, sia statunitense che venezuelana. Ma la pressione Usa continua e potrebbe avere effetti ben oltre l’emisfero occidentale: già durante il suo primo mandato infatti, l’avventurismo di Trump su questo fronte provocò un effetto domino con conseguenze nefaste per la sicurezza del commercio petrolifero mondiale.

    Possibili conseguenze globali
    Ma torniamo ad oggi: il 10 dicembre gli Usa hanno sequestrato nel Mar dei Caraibi la petroliera Skipper mentre si dirigeva verso Cuba trasportando almeno un milione di barili di greggio venezuelano per un valore pari a non meno di 50 milioni di dollari. L’imbarcazione, secondo Washington, era soggetta a sanzioni statunitensi sin dal 2022 per presunti legami con il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche dell’Iran e con il movimento armato sciita libanese Hezbollah. La Skipper, stando a quanto riportato dall’emittente britannica BBC, avrebbe navigato dalle coste dell’Iraq verso la Cina per poi tornare in Iran e infine salpare per il Venezuela, ma prima di arrivarci è stata fermata dalle forze statunitensi. Quest’azione, secondo Bloomberg, avrebbe costretto quattro petroliere iraniane dirette nel Paese sudamericano a invertire la rotta. Anche queste ultime sarebbero infatti nel mirino degli Stati Uniti.
    Nel 2020 il dipartimento di Giustizia Usa annunciò il blocco di una spedizione di carburante da parte dei Pasdaran iraniani verso il Venezuela. Allora, un tribunale del distretto di Columbia emise un ordine di sequestro per il carico trasportato dalle quattro petroliere: M/T Bering, M/T Bella, M/T Luna e M/T Pandi. Il sospetto è che si tratti delle medesime quattro navi che avrebbero cambiato rotta negli scorsi giorni. Anche se, stando ai dati della società di consulenza marittima Kpler citati da Bloomberg, queste ultime presentano nomi diversi. Le imbarcazioni che avrebbero rinunciato a dirigersi verso il Venezuela sarebbero infatti la Bella 1, battente bandiera panamense e già sanzionata dagli Usa, e la Seeker 8, la Karina e l’Eurovictory.
    Comunque vada a finire la storia recente ci insegna che la caccia alle petroliere iraniane non porta bene. Tra il 2019 e il 2020 infatti le tensioni internazionali intorno al commercio di petrolio da e verso l’Iran provocarono una serie di incidenti. Tutto cominciò con il sequestro al largo di Gibilterra di una petroliera iraniana sospetta di essere diretta in Siria da parte delle forze armate britanniche nel luglio del 2019. Malgrado il successivo rilascio dell’imbarcazione e dell’equipaggio, due mesi dopo Teheran sequestrò (e poi liberò) la petroliera britannica Stena Impero. Nel frattempo però altre quattro navi furono attaccate al largo delle coste degli Emirati Arabi Uniti e altre due nel Golfo persico. Queste tensioni, inserite nel contesto del ritiro unilaterale degli Usa dall’accordo sul nucleare iraniano deciso proprio da Trump l’anno precedente, contribuirono in pochi mesi al deterioramento dei rapporti con la Repubblica islamica, portando infine al raid del 3 gennaio 2020 a Baghdad con cui gli Usa uccisero il comandante della Forza Quds, l’unità d’élite dei Pasdaran, Qasem Soleimani, assieme al capo delle Forze di Mobilitazione Popolare sciite irachene Abu Mahdi al-Muhandis. Nulla, forse, rispetto all’intervento di quest’estate al fianco di Israele nella guerra contro l’Iran ma abbastanza per ricordarci quanto lontano le tensioni in materia petrolifera possano portarci.

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