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    Un giorno a Kampala

    "Tutti i bambini che ho incontrato volevano essere fotografati per rivedersi nel display della mia reflex"

    Di Giacomo Fè
    Pubblicato il 7 Mag. 2014 alle 00:00 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 12:20

    Questo fotoreportage è una mia ricerca forse pretenziosa verso le origini dell’uomo, verso la tribalità e le popolazioni meno implicate nei processi moderni.

    La tribalità, nella sua forma di vita e organizzazione sociale, l’avevo già cercata tra le popolazioni adivasi indiane dell’Orissa e del Jarkhand, e i Warao venezuelani.

    LE IMMAGINI

    Rendendomi poi conto che ero l’ennesimo fotografo che passava in quel villaggio o in quella valle, quando una Ong mi ha chiesto la copertura fotografica di un proprio progetto in Uganda, avevo avuto quasi la certezza che certe popolazioni di quelle montagne potevano essere davvero rimaste non-fotografate.

    Nel lungo trasferimento tra Kampala e la regione del Karamoja, ho avuto modo di fotografare e fermarmi in diversi villaggi, più o meno grandi, di etnia karamojong. E la mia impressione era stata quella di sempre: bambini che volevano foto, da rivedere subito nel display della reflex, e anziane che chiedevano soldi per le immagini.

    La montagna, ma soprattutto la facilità con cui trovano cibo e acqua, sono un lusso che ha tenuto i Tepeth lontano dalla savana e dalle strade più o meno battute, dalle organizzazioni non governative e dalle missioni di evangelizzazione. Non ho incontrato turisti, il flusso vacanziero in Uganda è fortemente incanalato verso i gorilla e i famosi parchi di foresta pluviale.

    Il nord è ancora lasciato a sé, senza corrente elettrica. Si vedono molto chiaramente i disastri sociali dopo i decenni di guerra. Raggiunto il villaggio che si chiama Mushas (2,350 mt) al mio incontro con un capotribù e sciamano Tepeth ho avuto subito la sensazione che fossero molto più interessati a me che alla mia macchina fotografica.

    Dopo averli osservati mentre accendevano un fuoco con una pietra, per mia etica personale, ho nascosto ogni display, dimenticato flash, torce elettriche. Nonostante tutto, ero ancora molto evidente tra loro. Ma forse avrei evitato domande e risposte complesse.

    Più tardi, durante i miei giorni con loro, mi hanno lasciato fotografare e accompagnato in altre valli, dove ero atteso per ricambiare la curiosità. La tribù soffriva di una congiuntivite comune, diffusa tra vecchi e bambini, così mi sono permesso di suggerire “la bollitura dell’acqua” prima di pulire gli occhi.

    Ho provato a spiegare cosa facevo, aiutandomi con una fototessera che avevo e che ho lasciato là insieme alle mie ancor più apprezzate bottiglie vuote.

    Il mio percorso fotografico professionale è fatto di reportage, linguaggio che cerco di applicare al mio lavoro diviso tra fotografia a tematica sociale, reportage commerciali e turistici, e wedding nella sua forma più dinamica.

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