Aeroporti civili (brevemente) chiusi ai voli, avvistamenti su installazioni militari e basi in massima allerta in tutta l’Europa dell’Est e del Nord. Negli ultimi sei mesi almeno 10 Paesi membri dell’Unione europea e della Nato (Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Lettonia, Lituania, Norvegia, Polonia e Romania) hanno segnalato un’escalation delle incursioni di droni lungo il fianco orientale del Vecchio continente. I rispettivi governi accusano tutti la Russia, che ha sempre negato ogni addebito sebbene, in quasi quattro anni di guerra in Ucraina, abbia più volte violato (anche recentemente) lo spazio aereo di alcuni di questi Stati con caccia e aerei militari dotati di equipaggio, prontamente intercettati dalle difese dell’Alleanza atlantica.
Benché i droni avvistati fossero disarmati, la reazione dei diversi esecutivi europei è arrivata, come nei casi di Polonia ed Estonia, all’attivazione dell’articolo 4 del Trattato di Washington, già invocato nel febbraio 2022 da otto Paesi della Nato a seguito dell’aggressione su vasta scala scatenata contro Kiev da parte del Cremlino. Tra settembre e ottobre, però, a Bruxelles si è passati dalle consultazioni ai progetti bellici, sia lato Nato che Ue.
Nemico dichiarato
L’idea è allestire una difesa efficace ma che sia anche economicamente sostenibile, visto che schierare aerei da combattimento e missili da centinaia di milioni per monitorare o abbattere dispositivi da poche decine di migliaia di euro risulterebbe inaccettabile per i contribuenti. Così la soluzione approntata dall’Alleanza e dall’Unione punta in primis a integrare le forze già presenti lungo il fianco orientale del Vecchio continente per poi sviluppare un vero e proprio ecosistema industriale volto a realizzare un “muro” di droni contro la Russia. Nessuno infatti a Bruxelles si nasconde.
La “Defence Readiness Roadmap 2030”, un piano commissionato a giugno dal Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Ue e presentato a metà ottobre dalla Commissione identifica chiaramente il nemico da combattere: Mosca, la cui aggressione all’Ucraina non è affatto vissuta come una crisi passeggera. Tanto che Kiev non solo viene esplicitamente definita la «prima linea di difesa europea» ma la ricostruzione del Paese e il suo riarmo vengono inseriti nel futuro piano di sicurezza a lungo termine dell’Unione. Ancor più esplicita, se possibile, la Nato che nel Consiglio Nord Atlantico del 10 settembre scorso ha «denunciato il comportamento sconsiderato della Russia», che tuttavia continua a negare ogni addebito, anche dopo il fermo da parte delle autorità militari francesi di due persone sospettate di aver lanciato droni da una petroliera riconducibile al Cremlino.
Operazione “Eastern Sentry”
La prima a muoversi comunque è stata proprio l’Alleanza atlantica. Il 12 settembre, due giorni dopo l’incursione di quasi una ventina di droni nel territorio della Polonia, che ha definito l’incidente un «atto di aggressione» e una «provocazione su larga scala», la Nato ha lanciato l’operazione “Eastern Sentry” lungo tutto il suo fianco orientale.
Descritta come una «attività multi-dominio», l’operazione coinvolge forze terrestri, marittime e aeree convenzionali e mira a colmare le lacune operative rese evidenti dalle incursioni di droni dal Mare del Nord al Mar Nero. Schierata soltanto in territorio Nato e non in Ucraina, “Eastern Sentry” ha come obiettivo principale integrare le diverse missioni e attività di sorveglianza aerea svolte dai singoli Paesi membri dell’Alleanza, a cui la Nato forniva di volta in volta il supporto necessario. Di fatto si tratta di un’estensione dell’operazione “Baltic Sentry”, avviata a inizio anno dal Comando Operazioni Alleate per proteggere Lituania, Lettonia ed Estonia e soprattutto il tratto del Mar Baltico interessato da azioni di sabotaggio di cavi sottomarini e altre infrastrutture fondamentali, integrando navi, sommergibili e aerei già schierati nell’area dall’Alleanza. Ora però la zona delle operazioni va dalla Finlandia alla Bulgaria e invece di prevedere l’impiego di unità navali e droni sottomarini per sorvegliare determinate installazioni, dovrà monitorare l’intero spazio aereo lungo gli oltre 2.555 chilometri del fianco orientale della Nato. Al momento però le risorse non sono tantissime.
Scarsa adesione
Finora, oltre a quelli “in prima linea”, l’operazione coinvolge direttamente soltanto tre Paesi membri: Francia, Regno Unito e Spagna. Parigi, la prima a farsi avanti, ha infatti inviato in Polonia tre caccia Rafale e messo a disposizione un aereo da trasporto militare Airbus A400M. Londra poi ha schierato due caccia Eurofighter Typhoon per sorvegliare lo spazio aereo polacco. Anche Madrid ha dispiegato due Eurofighter EF-2000 e un altro A400M. Per il resto però siamo ancora alle promesse: la Germania ha spostato lungo il proprio confine orientale quattro dei suoi Eurofighter, assicurandone la prontezza in qualsiasi momento. La Danimarca ha inviato la fregata militare “Niels Juel” nel Baltico e allertato due caccia F-35A nella sua base aerea di Skrydstrup, in Jutland. La Repubblica Ceca ha promesso tre elicotteri mentre nella sua ultima visita in Estonia il premier della Svezia, Ulf Kristersson, ha genericamente assicurato di voler «rafforzare la sicurezza sul fianco orientale della Nato, anche attraverso l’operazione Eastern Sentry». E l’Italia? Dopo che a settembre il ministro della Difesa Guido Crosetto aveva frenato sulla possibilità di inviare due nostri Eurofighter, il governo Meloni è rimasto fermo alle valutazioni.
Ma non è il solo problema: finora infatti alla missione non hanno aderito ufficialmente nemmeno gli Usa, che in Polonia mantengono oltre 10mila militari (pari a un terzo delle quasi 30mila truppe alleate schierate dal 2022 ai confini con la Russia). L’operazione continua inoltre a utilizzare per lo più caccia da combattimento, la cui manutenzione e le cui operazioni di volo costano molto più dei droni che dovrebbero monitorare. Per questo motivo le cancellerie europee considerano “Eastern Sentry” alla stregua di una misura provvisoria, in attesa della realizzazione di una sorta di “Cortina di droni” al confine orientale del Vecchio continente. «È tempo di guardare le cose da una nuova prospettiva», disse non a caso in conferenza stampa il generale statunitense Alexus Grynkewich, comandante supremo delle forze alleate Nato in Europa.
Scudo europeo
Un cambio di rotta già avvenuto all’interno dell’Ue, che da progetto di pace si prepara sempre più a investire in armi. La prima a chiedere l’istituzione di un “Eastern Flank Watch” fu infatti la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, nel suo discorso sullo stato dell’Unione 2025 dopo che un progetto simile, proposto dai Paesi baltici, era stato accantonato. Una richiesta poi formalizzata a giugno ai capi di Stato e di governo e quindi dettagliata nella “Defence Readiness Roadmap 2030”, che individua obiettivi, tempistiche, fonti di finanziamento e progetti concreti per il riarmo del Vecchio continente. Tra le iniziative di punta figura il cosiddetto “Muro anti-droni europeo”, una rete stratificata di sorveglianza e difesa lungo il confine orientale dell’Unione che integri radar, sistemi d’arma e per l’intercettazione di aerei, missili e altre minacce. Un progetto da realizzare entro il 2028, che andrà ad aggiungersi allo scudo anti-missile e allo scudo spaziale, entrambi previsti dallo stesso piano nei prossimi due anni.
Il progetto, secondo il documento, coprirà un’area che va dal Mar Baltico al Mar Nero e sarà «pienamente allineato alla struttura integrata di comando e controllo della Nato» e «complementare alle operazioni Eastern Sentry e Baltic Air Policing» e alle forze avanzate schierate dall’Alleanza. Il “Muro” sarà composto da «sistemi multistrato tecnologicamente avanzati e interoperabili con capacità anti-drone per il rilevamento, il tracciamento e la neutralizzazione» dei dispositivi nemici. Sarà inoltre dotato della «capacità di colpire obiettivi terrestri sfruttando la tecnologia dei droni per attacchi di precisione». Insomma non sarà solo una barriera difensiva volta a «proteggere le infrastrutture critiche» dell’Unione ma, all’occorrenza, potrà anche attaccare le basi da cui proviene la minaccia. Non solo: questa rete «dual use» sarà infatti «progettata per essere adattabile» anche ad altri scopi, «come la protezione delle frontiere, la lotta allo sfruttamento dei flussi migratori come arma di pressione politica e alla criminalità organizzata transnazionale».
Lo sforzo però sarà soprattutto industriale: secondo la Roadmap della Commissione Ue, sarà infatti necessario collegare, nel settore della difesa, «le attività di ricerca e sviluppo con la produzione (…) facendo affidamento su una capacità produttiva scalabile e su uno sviluppo tecnologico continuo».
Chi paga e quanto
Si tratterà allora di uno sforzo soprattutto economico. Se l’obiettivo, come si legge nel documento, è «fornire le capacità di cui gli Stati membri hanno bisogno (…) e ridurre i tempi di consegna per i materiali di difesa critici», la soluzione è investire cifre da capogiro nella base industriale della difesa europea. Parliamo di oltre mille miliardi di euro.
Nei prossimi dieci anni infatti il solo ReArm Europe mobiliterà 800 miliardi in nuovi investimenti bellici, a cui andranno ad aggiungersi altri 150 miliardi attraverso lo strumento Security Action for Europe (Safe) e i 131 miliardi destinati alla difesa e allo spazio dal prossimo bilancio comunitario 2028-2034. Non solo: tutti gli Stati membri sono anche esortati a raggiungere un livello minimo pari al 3,5% del Pil per la spesa militare entro il 2035, il che si tradurrebbe quasi in un raddoppio del bilancio per la difesa complessivo dei Paesi membri, visto che la media attuale supera appena l’1,9%, assicurando altri 288 miliardi di euro all’anno al comparto bellico dell’Unione. Tutto questo senza contare l’impegno già assunto dagli Stati membri della Nato (23 Paesi su 27 dell’Ue e 32 dell’Alleanza atlantica aderiscono a entrambe le organizzazioni) ad aumentare fino addirittura al 5% del Pil la spesa militare.
Anche se non è ancora possibile quantificare esattamente quante di queste risorse andranno a finanziare la costruzione del “Muro anti-droni”, secondo il portavoce della Commissione Ue Thomas Regnier, gli Stati membri del fianco orientale riceveranno circa 100 miliardi di euro in prestiti per la difesa dal bilancio condiviso dell’Unione. Non tutti questi fondi verranno però spesi in radar e missili: l’obiettivo a lungo termine infatti è costruire linee di produzione europee collettive che possano sostituire i frammentati appalti nazionali.
Se i costi significativi mettono a dura prova la sostenibilità fiscale del piano, per realizzarlo bisogna trovare consensi. Aumentare il bilancio per la difesa al 3,5% del Pil significa infatti impegnare centinaia di miliardi di euro in nuove spese annue, che andranno necessariamente a competere con altre priorità, soprattutto sociali e climatiche. Pertanto, come riconosce la Roadmap europea, «è fondamentale che questo aumento della spesa abbia ripercussioni anche in termini di occupazione, innovazione e competitività in Europa». Tradotto: senza benefici visibili, la reazione politica negativa sarà inevitabile e l’iniziativa risulterà ingiustificabile per i vari governi davanti alle rispettive opinioni pubbliche. Ma c’è chi già si frega le mani.
Affari d’oro
L’iniziativa, secondo la Commissione Ue, «dovrebbe basarsi sulle lezioni apprese dall’Ucraina sul valore chiave della creazione di ecosistemi innovativi anti-drone» e «sarà collegata alla proposta Alleanza per i Droni con l’Ucraina», prevista nel 2026 e finanziata interamente da Bruxelles con almeno sei miliardi di euro. Il riarmo europeo prevede infatti l’integrazione di Kiev nella tabella di marcia per la difesa comune: gli ucraini avranno così accesso a un programma specifico che garantirà loro la possibilità di sviluppare tecnologie belliche avanzate mentre le loro aziende saranno incluse nella Base Tecnologica e Industriale di Difesa Europea (Edtib). In più, una volta ricevuto lo status di Paese associato, l’Ucraina potrà partecipare ai programmi di finanziamento del Fondo europeo per la difesa. In cambio, come già annunciato dal presidente Volodymyr Zelensky all’Assemblea generale dell’Onu, Kiev aprirà alle esportazioni di armi testate sul campo di battaglia contro la Russia. Il prodotto di maggior successo, neanche a dirlo, sono proprio i droni, di cui oggi il Paese produce oltre quattro milioni di esemplari all’anno, di cui 200mila d’attacco. D’altra parte, su meno di 800 aziende per la difesa ucraine, oltre un quarto realizzano droni, dimostratisi efficaci persino contro le unità più moderne di Mosca. Come i Magura-V5, usati per colpire la flotta russa, o i droni sottomarini Toloka, capaci di colpire fino a duemila chilometri di distanza trasportando quasi cinquemila chili di carico utile. Non a caso, nel suo ultimo libro bianco pubblicato a marzo in materia, la Commissione Ue definisce l’Ucraina «il principale laboratorio mondiale dell’industria della difesa». Questi dispositivi sono talmente efficienti che a luglio Kiev ha stretto un accordo con la Casa bianca per venderne almeno 10 miliardi di dollari agli Usa. Inoltre ha firmato un contratto con la statunitense Swift Beat per produrre negli Stati Uniti centinaia di migliaia di dispositivi simili. Un modello a cui, una volta risolti i problemi relativi al rispetto degli standard Ue in materia di conformità anticorruzione e di questioni ambientali, sociali e di governance, vuole ispirarsi anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz, che a maggio ha annunciato una «nuova forma di cooperazione industriale militare bilaterale» tra Berlino e Kiev.
Chi ci guadagna
Le aziende europee infatti non restano a guardare e non c’è ragione di credere che non potranno guadagnare tanto quanto le loro controparti ucraine, se non di più. «L’Unione è il principale promotore dell’industria della difesa ucraina e, con un totale di 1,4 miliardi di euro, abbiamo erogato più finanziamenti di chiunque altro», ha dichiarato a maggio l’Alto rappresentante per la politica estera Kaja Kallas in occasione del secondo Forum Ue-Ucraina sull’industria della difesa. Ad oggi, Bruxelles e gli Stati membri avevano erogato almeno 50,3 miliardi di euro di aiuti militari all’Ucraina e molti di questi fondi sono finiti ad aziende private produttrici di armi.
Le prime 100 imprese del settore, secondo l’ultima analisi dello Stockholm International Peace Institute (Sipri), avevano registrato utili per 598 miliardi di euro nel 2023. Quello stesso anno la tedesca Rheinmetall, che grazie alla produzione di munizioni da 155 mm e carri armati Leopard ha aumentato i profitti del 10%, stipulò un accordo con un’azienda ucraina per una joint-venture nel Paese aggredito dalla Russia, secondo un modello già seguito l’anno precedente dalla britannica Bae Systems. Intanto la turca Baykar, leader mondiale nel settore dei droni armati, ha registrato 1,8 miliardi di dollari di esportazioni nel 2024, con il 90% del fatturato proveniente dalle vendite internazionali. Il gioco però avvantaggia tutti, non solo i colossi del settore: imprese più piccole in Svezia, Ucraina, Polonia, Norvegia e Repubblica Ceca hanno infatti registrato un enorme aumento degli ordinativi. L’anno scorso, ad esempio, solo la danese MyDefence, che produce rilevatori di droni, ha raddoppiato gli utili rispetto al 2023, superando i 16 milioni di euro. I connazionali della Weibel Scientific, che producono tecnologia radar, si sono invece aggiudicati un contratto da 65 milioni di euro negli Usa (il più ricco mai firmato), registrando oltre 109 milioni di euro di fatturato. Ma la corsa al riarmo è appena cominciata.