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    “Tripoli non risponde”: ecco cosa non funziona nei soccorsi in mare al largo della Libia

    Uno dei 47 migranti salvati dalla nave Sea Watch 3 nel Mediterraneo il 19 gennaio 2019. Credit: FEDERICO SCOPPA / AFP

    "L'addestramento fornito dall'Italia alla guardia costiera libica e gli oltre 300 milioni di euro investiti non servono se, come è sempre più evidente, al telefono del loro centro di coordinamento marittimo non risponde nessuno". L'opinione di Valerio Nicolosi:

    Di Valerio Nicolosi
    Pubblicato il 20 Gen. 2019 alle 11:35 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 01:29

    Il segnale sembra essere chiaro: servono altri soldi, altrimenti quel sistema precario messo su dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti e finanziato dall’Unione europea non funziona.

    La segnalazione del “distress” (natante in imminente pericolo) del gommone affondato nei giorni scorsi è arrivata quando questo era già sgonfio a 40 miglia dalla costa, percorso facilmente percorribile con le motovedette regalate dal governo italiano alla “guardia costiera libica” di Tripoli.

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    Le “corrubia”, infatti, vanno ad una velocità di 43 nodi e sarebbero potute arrivare in meno di un’ora sul posto ma, al momento dell’intervento, il mezzo si è rotto. A quel punto è arrivata la chiamata generale a cui hanno risposto solamente la nave della ong Sea Watch, troppo lontana per intervenire, e più tardi un cargo battente bandiera liberiana.

    Sembra ci fosse un altro assetto mercantile in zona quando l’aereo della Marina Militare Italiana ha lanciato la segnalazione ma, come succede ormai spesso, le navi non rispondono per paura di essere bloccate fuori i porti, perdendo giorni di lavoro.

    È famoso il caso della Sarost 5, una nave commerciale tunisina che lavora a supporto delle piattaforme petrolifere nel Mediterraneo. La scorsa estate è rimasta in stand off per 22 giorni fuori il porto di Zarzis, dopo aver soccorso 40 migranti.

    La politica dei porti chiusi europei ha svuotato il Mediterraneo Centrale dalle navi mercantili, lasciando solo le navi appoggio delle piattaforme a largo di Zuwara, dove tanti paesi europei, tra cui l’Italia, hanno interessi importanti.

    Tornando alla “guardia costiera libica” di Tripoli, forse l’addestramento fornito dall’Italia e gli oltre 300 milioni di euro investiti non sono serviti se, come è sempre più evidente, al telefono del loro centro di coordinamento marittimo non risponde nessuno. Lo hanno denunciato a più riprese le navi che fanno soccorso in mare: Open Arms, Sea Watch e le altre, tutte concordi sull’inutilità di un centro che dovrebbe coordinare e che invece latita e non interviene.

    Il 31 luglio dalla Open Arms avevamo raccontato il caso della Asso 28, un mercantile italiano che su ordine di Tripoli ha soccorso e riportato nel porto libico oltre 100 persone, violando le leggi internazionali secondo le quali la Libia non è un porto sicuro. Il capo missione Riccardo Gatti provò a chiamare insistentemente il centro di coordinamento marittimo di Tripoli, senza nessun risultato (qui l’intervista di TPI a Riccardo Gatti sul caso).

    Nonostante questo da oltre un anno la risposta del centro di coordinamento italiano è una soltanto: “sentite Tripoli”. Come se la Libia fosse un paese normale e non un territorio dove bande armate si stanno tutt’ora combattendo.

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