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    Lesbo, Idlib e i lager libici dimostrano l’impotenza dell’Europa

    Credit: ANSA/UFFICIO STAMPA OXFAM/PABLO TOSCO

    A Lesbo si sta consumando un'autentica tragedia umanitaria, come non si vedeva da quando venne liberato il campo di sterminio di Auschwitz. E guai a minimizzare o a tracciare degli speciosi distinguo perché ogni epoca ha il suo nazismo. Il commento di Roberto Bertoni

    Di Roberto Bertoni
    Pubblicato il 2 Mar. 2020 alle 19:24 Aggiornato il 2 Mar. 2020 alle 19:47

     

     

    Ciò che sta accadendo sull’isola greca di Lesbo, al pari di ciò che sta accadendo a Idlib, nella Siria in fiamme da ormai nove anni, è qualcosa che faremo fatica a giustificare davanti alle future generazioni. Quando ci verrà chiesto conto di dove fosse l’Europa e di cosa stessimo facendo mentre si consumava un dramma di queste proporzioni, saremo costretti a provare una vergogna che difficilmente ci consentirà di dormire ancora la notte. Vale per tutti, perché prima o poi la storia, sia detto senza alcuna retorica, si incarica di stigmatizzare a dovere tanto gli autori dei crimini quanto i loro complici, volontari o involontari che siano.

    L’Europa fortezza che da quattro anni finanzia Recep Tayyip Erdoğan, il sultano turco che ha condotto il proprio paese lontano anni luce da ogni possibile avvicinamento all’Unione Europea, è lo stesso continente che preferisce pagare, tanto sulla rotta terrestre quanto su quella marittima, vari tipi di carcerieri pur di non spendere il giusto per accogliere gli ultimi del mondo. L’Europa fortezza, cui purtroppo ha aderito anche la Grecia, in seguito alla sconfitta elettorale di Tsipras e al ritorno della destra guidata da Kyriakos Mitsotakis, è il continente dei fili spinati, dei muri, delle frontiere sigillate, il continente che assiste indifferente ai bambini che si suicidano spaccandosi la testa contro le rocce o impiccandosi o tagliandosi le vene pur di sfuggire all’inferno nel quale sono stati reclusi.

    A Lesbo si sta consumando una tragedia che non si vedeva da quando venne liberato il campo di sterminio di Auschwitz. E guai a minimizzare o a tracciare degli speciosi distinguo perché ogni epoca ha il suo nazismo e quello attuale si manifesta sotto forma di tortura prolungata, nelle tende arroventate di giorno e gelide di notte, nella pioggia, nel fango, nelle fogne a cielo aperto e in tutta una serie di descrizioni che ricordano da vicino quelle di Primo Levi e di altri sopravvissuti all’Olocausto. Lesbo, al pari di Idlib, al pari dei lager libici cui ci siamo affidati per nascondere la polvere sotto il tappeto per non essere costretti a fare i conticini un’emergenza cui non potremo in alcun modo sfuggire, mostra in maniera eclatante l’impotenza del Vecchio Continente.

    A luglio saranno venticinque anni dal massacro di Srebrenica, e diciamo che le guerre balcaniche, cui assistemmo a lungo inerti, furono il primo segnale della nostra comune incapacità di percepire come fratelli e sorelle coloro che patiscono pene inimmaginabili a due passi da noi. Poi cominciarono a sbarcare gli albanesi sulle coste pugliesi e l’orrore ci entrò in casa, i figli di quegli uomini e di quelle donne divennero compagni di scuola dei nostri e i loro racconti, talvolta davvero tremendi, ci impedirono per un po’ di voltarci dall’altra parte.

    Se consideriamo che, come ha scritto Gad Lerner domenica scorsa su Repubblica, la distanza fra Roma e Idlib è di poco superiore a quella fra Aosta e Trapani e che la Libia sta a poche centinaia di miglia marittime da noi, che Lampedusa giace in acque sostanzialmente africane e che l’abisso ci si materializza continuamente in casa, anche se i nostri governanti fanno di tutto per tenerlo fuori dalla porta, ci rendiamo conto di quanto la globalizzazione abbia modificato non solo le nostre vite ma anche il nostro immaginario. Possiamo pure illuderci che basti parlar d’altro e rinchiudere i profughi nelle Abu Ghraib libiche, possiamo pure regalare fior di miliardi a Erdoğan anziché investirli per creare un efficiente sistema d’accoglienza europeo, possiamo pure far finta di niente e continuare a lanciare slogan disumani insieme a chi lucra sulla disperazione degli ultimi della Terra ma, prim’ancora, su quella dei penultimi di casa nostra, possiamo continuare a comportarci così, certo, ma la realtà ci sta già esplodendo dentro.

    Ci esplode dentro ogni volta che un barcone affonda a pochi passi dalle nostre coste. Ci esplode dentro quando un bambino riesce a passare sotto il filo spinato di una qualche barriera posta dal sovranista di turno per mere ragioni elettorali. Ci esplode dentro quando qualche giornalista compie il suo dovere e apprendiamo dei bambini morti di freddo a Idlib. Ci esplode dentro quando vediamo le immagini di certi padri e di certe madri. Ci esplode dentro in quel di Ceuta e Melilla. Ci esplode dentro quando siamo costretti a fare i conti con le pretese disumane di Orbán e dei suoi sodali del Gruppo di Visegrád. E ci esplode dentro in questi giorni, mentre l’Europa, alle prese con le conseguenze del Coronavirus, è costretta a fare i conti anche, e direi soprattutto, con la propria ignavia al cospetto un fenomeno epocale che sfugge alle antiche classificazioni e, per quanto riguarda la politica italiana, non ci consente di perder tempo con le solite polemiche inutili.

    La verità è che fra Lesbo e Idlib sono state poste le colonne d’Ercole della civiltà e, al di là, è come se ci fosse scritto: “Hic sunt leones“. Uomini non più uomini, adolescenti che sembrano già vecchi ed ecco che ci tornano in mente i versi di Levi, al cospetto di una marea senza futuro che persino i commentatori più benevoli sono costretti a considerare alla stregua di numeri, non potendo conoscere i loro nomi e le loro storie. Eppure, proprio di quei nomi e di quelle storie ci sarebbe bisogno per provare a risvegliare le coscienze, prima che l’ideologia della strage necessaria, drammaticamente presente nelle menti e nei cuori delle persone in difficoltà, prenda definitivamente il sopravvento, inducendoci, come ottant’anni fa, a considerare quegli esseri umani vite di scarto, dunque sacrificabili pur di difendere il nostro avamposto di semi-disperazione.

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