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    Iran, Emirati Arabi, Qatar: chi vince e chi perde dalla fine della crisi nel Golfo

    Credit: ANSA/EPA/SAUDI ROYAL COURT

    La conclusione della disputa in corso dal 2017 apre nuove prospettive ma non risolve i principali problemi regionali, rischiando invece di acuire le divergenze tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, senza riuscire a isolare l’Iran

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 5 Gen. 2021 alle 17:40

    La ricomposizione della frattura interna al Consiglio di Cooperazione del Golfo, scatenata quasi quattro anni fa da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein contro il Qatar, con la fine di un blocco economico e territoriale a cui aveva aderito anche l’Egitto, rappresenta una notizia importante per il Medio Oriente ma non risolve affatto i principali problemi regionali, rischiando anzi di acuire le crescenti divergenze tra Riad e Abu Dhabi senza riuscire a isolare l’Iran.

    Il vero attore uscito sconfitto da questa crisi non è infatti di certo Teheran, che apparentemente vede riunire davanti a sé il fronte arabo, rimasto però profondamente segnato dalla crisi, alimentata dalle ambizioni di altre giovani potenze locali, come gli Emirati Arabi Uniti.

    Come osservato dal commentatore saudita, Khalid al-Dekhayel, la “riduzione dell’escalation” poggia su “basi superficiali”, vista la permanenza di tutti i nodi del dissenso tra Arabia Saudita e Qatar, in particolare riguardo i rapporti con l’Iran, che grazie al blocco dal 2017 ha ricevuto oltre 100 milioni di dollari all’anno per aprire il proprio spazio aereo all’emirato.

    La crisi si è infatti conclusa senza il rispetto delle 13 richieste pervenute tre anni fa al Qatar, tra cui la rottura dei rapporti diplomatici di Doha con Teheran e con varie organizzazioni terroristiche come i Fratelli Musulmani, il sedicente Stato Islamico, al-Qaeda e Hezbollah e qualsiasi altro gruppo considerato tale da Riad, Abu Dhabi, Manama e il Cairo; la chiusura di gruppi editoriali come Al-Jazeera e altre testate quali Arabi21, Rassd, Al-Araby Al-Jadeed e Middle East Eye; la cessazione della presenza militare della Turchia nel Golfo; l’interruzione del sostegno all’opposizione politica in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto; il pagamento di un sostanzioso risarcimento danni; e l’allineamento alle politiche estere, economiche e di difesa di questi ultimi quattro Stati.

    Anche per questo la decisione di Riad di porre fine all’embargo non incontra l’entusiasmo di Abu Dhabi, che pur aderendo alla riconciliazione non vede sostanziali vantaggi nella ricomposizione della crisi. Se la priorità dei sauditi è contenere le ambizioni iraniane, negli ultimi anni la leadership emiratina si è dimostrata molto più preoccupata per l’appoggio di Doha e di Ankara a gruppi islamisti in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa. Insieme all’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti vedono il sostegno del Qatar e della Turchia ai Fratelli Musulmani come una minaccia alla sicurezza regionale, mentre Arabia Saudita e Bahrein sono piuttosto turbate dai legami tra Doha e Teheran, che il blocco non ha affatto interrotto, semmai alimentato.

    “Gli Emirati Arabi Uniti desideravano tentare di sopprimere l’indipendenza in politica estera del Qatar: il continuo sostegno all’autoritarismo contro l’islamismo e le profonde frustrazioni per le relazioni tra Qatar e Turchia rappresentano i principali punti critici per Abu Dhabi”, spiega a TPI il ricercatore dell’Università di Oxford, Samuel Ramani. “In questo senso, gli Emirati Arabi Uniti sono il principale perdente di questa situazione: la fine del blocco imposto al Qatar rappresenta una grave battuta d’arresto per l’influenza nel Golfo da parte di Abu Dhabi che, in questo momento, si sta rendendo conto di tutti i limiti del proprio potere, nonostante la ricchezza e la crescente statura internazionale”.

    Il dissenso tra le due monarchie arabe è stato plasticamente dimostrato al vertice di oggi organizzato ad Al-Hula, nel nord-ovest dell’Arabia Saudita, nella splendida cornice del Maraya Concert Hall, l’edificio a specchi più grande del mondo progettato dallo studio milanese Gio’ Forma. Proprio l’assenza di alcuni attori chiave all’incontro riflette infatti un clima tutt’altro che ottimista riguardo la decisione saudita, nonostante i proclami ufficiali e l’abbraccio tra il principe ereditario, Mohammed bin Salman, e lo sceicco del Qatar, Tamim bin Hamad Al-Thani.

    Al summit non si è infatti presentato il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, nonostante la scelta del Cairo di riaprire lo spazio aereo al Qatar e di riconciliarsi, almeno formalmente, con Doha. Ancor più importante, in rappresentanza degli Emirati Arabi Uniti, ad Al-Hula era presente il monarca di Dubai, Mohammed bin Rashid Al Maktoum, e non il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed, considerato il vero ispiratore del blocco imposto nel 2017.

    Mohammed bin Zayed è il grande, vero ideatore di questa crisi e mentore ideologico del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman”, ricorda Ramani. “La sua presenza avrebbe mandato un potente messaggio di riconciliazione in caso di incontro con l’emiro del Qatar”. “Invece”, prosegue il ricercatore, “il protetto ha aggirato e sfidato il mentore ponendo fine al blocco nonostante gli Emirati Arabi Uniti non fossero d’accordo”.

    La decisione di Riad va infatti letta anche come un tentativo di recuperare l’iniziativa a livello regionale, riconquistando una leadership spesso contestata negli ultimi anni dalle mosse politiche unilaterali di Abu Dhabi. “L’Arabia Saudita è lo Stato più potente dell’area ma gli Emirati Arabi Uniti sono il più influente”, sottolinea il ricercatore. “La fine dell’embargo rappresenta un cambiamento significativo nelle dinamiche di potere tra i due Paesi, che in futuro potrebbe portare a frizioni ancor più profonde tra Riad e Abu Dhabi, già in disaccordo sullo Yemen meridionale, su come affrontare l’impegno con Siria e Israele e su alcuni aspetti della politica verso Turchia e Iran”.

    Tuttavia, anche l’obiettivo di Mohammed bin Salman di rivedere i rapporti con il Qatar per allontanare l’emirato dalla repubblica islamica potrebbe non essere centrato. Secondo il ricercatore dell’Università di Oxford, la fine della disputa “non creerà”, come si potrebbe supporre, “un fronte arabo unito contro l’Iran”.  

    Sin dalla fondazione del Consiglio di Cooperazione del Golfo, avvenuta nel maggio di quarant’anni fa ad Abu Dhabi, l’Iran ha cercato di sfruttare le divisioni interne ai Paesi aderenti, godendo ultimamente della necessità di Doha di restare connessa al resto del mondo durante il blocco. La ricomposizione della disputa senza il rispetto delle condizioni poste al Qatar dimostra il fallimento della politica di coercizione adottata contro l’emirato e mantiene inalterati i buoni rapporti raggiunti da Doha con la repubblica islamica.

    Il Qatar infatti non ha mai interrotto i legami con Teheran come richiesto dalle monarchie del Golfo e la ricostruzione della fiducia tra le parti dopo una crisi simile richiederà molto tempo. “C’è ancora molto lavoro da fare”, ha commentato ieri su Twitter l’ex ambasciatrice degli Stati Uniti a Doha, Dana Shell Smith,“soprattutto per superare i sentimenti incredibilmente amari che questo inutile blocco ha alimentato tra le persone e le comunità nel Golfo”.

    In futuro, secondo Ramani, i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo manterranno ancora almeno quattro diversi approcci ai rapporti con l’Iran: uno più accomodante e volto al negoziato, promosso dall’Oman, uno diretto al contenimento delle ambizioni di Teheran senza rinunciare a forme di collaborazione economica, sostenuto da Qatar e Kuwait, uno mirante a un confronto gestibile, adottato dagli Emirati Arabi Uniti, e l’ultimo favorevole allo scontro, scelto da Arabia Saudita e Bahrein. 

    In questo quadro, oltre a un riavvicinamento tra Riad, Ankara e Doha, difficilmente la fine della crisi porterà a cambiamenti significativi nelle dinamiche interne al Golfo e più in generale in Medio Oriente, Corno d’Africa e Maghreb. La riammissione di Doha nel Consiglio non risolve infatti le rivalità tra le varie potenze regionali nel Mediterraneo, nel Mar Rosso e in Nord Africa, dove i diversi attori continueranno a sfidarsi direttamente e per procura per aumentare il proprio potere.

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