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    “In cella senza cibo, bevevo da un panno intriso di sangue”: il racconto del giornalista italiano arrestato in Bielorussia

    Credits: Anton Starkov

    "Accecato e manganellato alle gambe dalla polizia bielorussa senza motivo: in prigione per tre notti e tre giorni ho visto sangue e mascelle rotte. Intorno a noi solo urla e metallo. Ho vomitato e mi hanno detto che stavo bene", parla Claudio Locatelli

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 13 Ago. 2020 alle 18:16 Aggiornato il 14 Ago. 2020 alle 07:32

    Bielorussia, il racconto del giornalista italiano arrestato a Minsk

    Claudio Locatelli è un giornalista italiano di 32 anni che si trovava a Minsk, in Bielorussia, quando sono esplose le proteste per la sesta vittoria consecutiva di Aleksandr Lukashenko alle elezioni presidenziali, e nella notte tra il 9 e il 10 agosto è stato arrestato. In prigione ha trascorso tre giorni e tre notti, in una cella di quattro metri per quattro insieme ad altre 18 persone, senza cibo e bevendo acqua putrida. Non solo manifestanti, ma gente comune che a Minsk si trovava per altre ragioni o per raccontare le le proteste. Ma alla polizia, dice Locatelli a TPI, non interessava. “Il metodo era quello di imporre violenza in modo indiscriminato. Hanno usato un meccanismo di terrorismo generalizzato volontario, bloccato persone che uscivano dai ristoranti, gente che camminava, gente in bicicletta, è stata una cosa sistematica”, afferma.

    Claudio si trovava dietro i blocchi di agenti in tenuta anti sommossa, che smembravano i manifestanti, li dividevano e li caricavano, quando è arrivato il suo turno: stava riprendendo la scena con il telefono da lavoro quando gli sono andati incontro in 15. “La prima volta un poliziotto mi ha lasciato stare dopo che gli ho fatto capire che ero un giornalista italiano. La seconda non c’è stato scampo: mi hanno indicato e sono partiti in 15, hanno iniziato a caricarmi. Ho alzato una mano, ripetuto che ero un giornalista, loro hanno preso il cellulare che tenevo nell’altra, lo hanno sbattuto a terra, mi hanno spruzzato lo spray al peperoncino in faccia: tutto bruciava e nel momento in cui sono rimasto completamente accecato mi hanno picchiato sulle gambe con i manganelli per farmi mettere in ginocchio. Poi mi hanno messo le fascette ai polsi e mi hanno portato in un mini van”.

    Claudio non vedeva più nulla, ma cercava di far capire al poliziotto che si trovava con lui che aveva commesso un errore, perché lui era italiano, era un giornalista. L’uomo invece lo conduce alla stazione di polizia. “Lì la situazione cambia”, afferma Claudio. “Arrivo, entriamo, c’è un portone di metallo gigante, la stazione di polizia aveva un’area di prigionia. Sento grida, urla”. “Bystro, bystro, bystro!” (“veloci veloci veloci”), urlavano. “Mi scortano due poliziotti grossi nel corridoio della prigione, nel frattempo vedo altri furgoni che portano gente, tengono persone con la testa bloccata verso il basso, e così le fanno correre”. Lo sbattono contro il muro, si gira: alla sua destra “una fila infinita di persone” che come lui sono schiacciate con le braccia alla parete. “Gridano, ci insultano, prendono la testa anche a me, guardo a terra e c’erano macchie di sangue, anche se non mie. Guardo indietro e c’è una ragazza con la mascella sfondata, con il sangue che cola”. A quel punto, portano Claudio in cella.

    Anton Starkov

    “La prima cella è letteralmente una gabbia con pareti di cemento e una rete metallica: buttano dentro me e un cinese, a terra c’un buco per i bisogni, è tutto maleodorante. Arrivano anche uno svizzero, un turco e un moldavo, lui era un osservatore internazionale della presidenza moldava invitato dallo stesso Lukashenko, dimostrazione del fatto che arrestavano a caso, per creare terrore. C’erano anche due giornalisti russi. Il tempo ha iniziato a dilatarsi, uso il mio telefono privato che avevo ancora con me per chiamare l’Ambasciata: erano le tre di notte”. Ma proprio mentre sta per comunicare il numero del passaporto all’Ambasciata italiana a Minsk, le guardie lo vedono e gli sottraggono cellulare e passaporto dalle mani.

    Un’immagine della cella in cui Claudio Locatelli è stato trattenuto a Minsk. Credits: Anton Starkov

    Era ancora la notte infinita tra il 9 e il 10 agosto, fuori la protesta continuava a infiammare la città e i furgoni trasportavano gli arrestati – che sono risultati poi circa 3mila – in prigione. “Per tutta la notte abbiamo sentito solo grida, urla, botte, rumore di metallo costante sopra di noi. Ci aprono la porta, penso: ora ci faranno uscire”. Invece lo portano in un’altra cella minuscola di quattro metri per quattro. “Mentre ci portano lì ci mettono in corridoio, continuano a insultarci, urlano: “Finocchi italiani venditori di vino siete tutti malati voi europei”. Noi guardiamo macchie di sangue ovunque, pezzi di dente, monetine e una valanga di bagagli, borse, borsette e cellulari che suonavano a ripetizione. Scene terribili che ricordavano i racconti più bui della storia”.

    Nella cella c’era solo una latrina alla turca “dove l’unica acqua che ci danno è quella che usciva da un rubinetto in parte rattoppato con uno straccio intriso di sangue e piscio”. “Berremo da lì per due giorni e due notti”, racconta ancora Claudio. Nell’arco di poche ore la cella si riempie, e dai 15 detenuti di partenza, in tutto diventano 19. “I due russi e il moldavo escono, ma a sostituirli arrivano altre persone che erano state manganellati in prigione, a uno si era rotta la lente da vista nell’occhio ed è rimasto tutto il tempo con l’occhio sanguinate. Gli ultimi sono arrivati nudi con i segni sulla schiena. Se iniziavamo a chiedere cibo minacciavano di riempirci con la pompa d’acqua. Oppure ci dicevano “sì” per prenderci in giro, ma non arrivava niente. La mia preoccupazione, oltre alla stanchezza, era che persone meno preparate di me a quella situazione cedessero allo stress facendoci finire male tutti. I poliziotti ci avevano avvertiti più volte”. Il 10 agosto Claudio sta male, inizia a vomitare. “Quattro volte in un’ora“. I compagni di cella chiedono aiuto e arriva una donna che gli sente il polso dal buco della porta e gli dice: “Va tutto bene”. Claudio non si sentiva bene per lo spray ingerito nel momento dell’arresto.

    È il primo pomeriggio del 12 agosto quando viene liberato dalla prigione, non ricorda l’ora. “Le 14 o le 15”. Non sa se sia stata la sua telefonata, i compagni di viaggio che non lo hanno visto rientrare o il compagno di cella russo uscito di prigione prima di lui ad allertare l’Ambasciata, ma racconta che per i diplomatici italiani non è stato facile ottenere il rilascio. Ora, intorno alle 13 di giovedì 13 agosto, è arrivato in Italia, a Bergamo, e dopo aver raggiunto la città di Padova si sottoporrà a due settimane di quarantena. Claudio non sa nemmeno se i tanti altri che si trovavano con lui, svizzeri, ucraini, polacchi, siano riusciti a uscire, e non riesce ancora a capacitarsi del fatto che alcuni di loro siano ancora lì. “Un governo dittatoriale si vede da come tratta i più, che ognuno tragga le sue conclusioni”, afferma.

    Domani venerdì 14 agosto alle ore 18 Claudio Locatelli terrà una diretta video sulla sua pagina Facebook per rispondere alle domande di chi ha seguito la sua vicenda.

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