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    May: “Attacco in Siria era inevitabile”. Insorgono le opposizioni

    Credit: SIMON DAWSON

    I partiti di opposizione lamentano il fatto che il parlamento non sia stato consultato, come fece David Cameron nel 2013 quando dovette abbandonare l’operazione in Siria per l’opposizione parlamentare

    Di Maurizio Carta
    Pubblicato il 14 Apr. 2018 alle 17:07 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:44

    Di Maurizio Carta da Londra. L’attacco militare siriano non è stata una sorpresa nel Regno Unito: era nell’aria già da giorni, un attacco condotto al fianco di Stati Uniti e Francia.

    Nel dibattito politico ultimamente la Brexit ha lasciato il campo alla vicende internazionali di più ampio raggio, la questione siriana e l’avvelenamento – accertato o presunto – dell’ex spia russa Skripal e della figlia in visita qui nel Regno Unito. I rapporti fra la Russia – paese che appoggia il presidente Assad in Siria – e il Regno Unito, da tempo sono ai minimi storici.

    Lo hanno ammesso anche durante il loro recente incontro i rispettivi ministri degli esteri quando si sono visti a Mosca faccia faccia qualche mese fa. La vicenda della spia Skripal ha ulteriormente soffiato su un fuoco che già ardeva con forza, provocando l’espulsione di personale diplomatico, con appoggio incondizionato della maggior parte dei paesi europei, e sostegno dello storico alleato di sempre, gli Stati Uniti.

    L’attacco è stato descritto e giustificato dalla premier Theresa May in una conferenza stampa in cui ha spiegato ai sudditi di Sua Maestà che nessun canale diplomatico ha funzionato e che l’azione militare è stata l’unica alternativa possibile sul campo, e che l’uso delle armi chimiche va combattuto e condannato senza se e senza ma.

    Il governo britannico ha premuto sul fatto che la Russia ha posto il potere di veto su una risulozione Onu per l’invio di ispettori delle Nazioni Unite a Douma, sede del presunto attacco chimico imputato al presidente Bashar Al Assad (il 12° veto della Russia nella contesa partita della Siria).

    Non si sono certo fatte attendere le dichiarazioni dei leader politici britannici. Boris Johnson, il ministro degli Esteri, già da qualche tempo usa un linguaggio “poco diplomatico” nei confronti della Russia di Putin, atteggiamento che spesso lo ha portato al centro del dibattitto sull’appropriatezza di un gergo che può risultare poco adatto al capo della diplomazia di uno stato.

    Il ministro della Difesa, il giovane Gavin Williamson, ha comunicato che tutti i militari e le forze coinvolte nell’operazione sono rientrati alla base compiendo la missione egregiamente, colpendo gli obbiettivi prefissati. Gli aerei – 4 Tornado dellla Royal Air Force – sono partiti dalla base militare di Cipro. Nella missione sono stati colpiti un centro di ricerca a Damasco e un deposito di armi a Homs.

    Gli aerei della Raf britannica non sono mai entrati nello spazio di difesa aereo siriano, facendo partire dei missili che sono in grado di colpire a distanza di 500Km, senza sorvolare quindi l’obbiettivo ma colpendolo da lunghissima distanza.

    II leader dell’opposizione Jeremy Corbyn ha condannato l’operazione, evidenziando come il parlamento non sia stato consultato preventivamente.

    Stessa cosa ha fatto Nicola Sturgeon, primo ministro della Scozia e leader dell’Snp, partito ben rappresentato nel parlamento di Westminster. Sturgeon è stata durissima nel dichiarare che la politica estera deve essere decisa fra le mura domestiche e non seguendo le istruzioni di Washington.

    May si è giustificata con la necessità dell’agire tempestivamente di concerto con gli alleati, ma fonti ufficiali, come riportato dal Financial Times, hanno fatto intendere che se non fosse avvenuto durante questo fine settimana, ci sarebbe stato un dibattito parlamentare preventivo al riguardo.

    Tema caldo quello degli interventi militari, specie se non supportati da prove concrete. Ha fatto storia nel Regno Unito lo scorso luglio la pubblicazione del rapporto Chilcot, l’inchiesta durata sette anni commissionata dall’allora premier Gordon Brown nel 2009 che dimostrò come Saddam Hussein non fosse in possesso delle armi di distruzione di massa incriminate.

    Precedente celebre, fra le mura britanniche, la richiesta di David Cameron su un’azione militare da condurre in Siria nel 2013, quando il parlamento si espresse per il “no”, con 285 voti contro 272, facendo sì che anche Barack Obama, allora in carica, abbandonasse l’iniziativa.

    Londra e Washington sono storicamente legati dal fatto che il Regno Unito è uno dei pochi paesi che rispetta il 2 per cento di spesa del Pil sul reparto militare stabilito dalla Nato, ma anche dal fatto che con i “cugini” americani siano alleati nel “Five Eyes”, la gestione del sistema di servizi segreti fra i cinque grandi paesi anglofoni che comprende, oltre Stati Uniti e Regno Unito, anche Canada, Australia e Nuova Zelanda.

    Oggi venerdì 14 aprile, l’ex premier Cameron, ha manifestato il suo supporto all’azione del governo in carica.

    Un sondaggio condotto dall’autorevole istituto di ricerca Yougov ha riscontrato che solo il 22 per cento degli intervistati è d’accordo all’azione di carattere militare in Siria.

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