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    L’11 settembre doveva cambiare il mondo, ma ha finito per cambiare noi

    Credit: AFP
    Di Lorenzo Tosa
    Pubblicato il 11 Set. 2019 alle 12:54 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 14:01

    Lo confesso. Quando mi hanno chiamato dalla redazione per chiedermi di scrivere qualcosa sull’11 settembre 2001, la mia prima reazione è stata di sorpresa. La seconda di panico. Cosa potrò mai dire oggi sull’argomento, a distanza di 18 anni, che già non sia stato detto, scritto, sviscerato, sminuzzato fino a scomodare ogni possibile gamma di significato?

    Non c’è un solo aspetto tecnico o elemento di indagine che non sia passato almeno duecento volte al metal detector della rete, del complotto e del debunking. La verità è che ne abbiamo scritto e parlato così tanto, e così a fondo, in questi 18 anni, da aver saturato l’argomento, rendendo ogni novità o nuova interpretazione rumore bianco nelle nostre vite quotidiane.

    Tutto già detto, tutto già fatto, tutto già vissuto e persino risputato fuori. È come se, in qualche modo, quella storia non ci riguardasse più, appartenesse alla memoria collettiva di qualcun altro. E non mi riferisco solo agli italiani.

    Persino gli americani sono andati avanti, forse per indole, forse per necessità, a una velocità addirittura superiore a quella di noi europei. Se visiti New York in questi anni, ti accorgi come Ground Zero sia diventato ormai un quartiere della città come tanti altri, come se il cristallo dei grattacieli si fosse ripreso i suoi spazi con la stessa forza con cui la natura assorbe e si impadronisce di una casa abbandonata.

    Se ci pensate, il mondo stesso, le società nelle quali viviamo oggi non sono più da un pezzo quelle prodotte dall’attentato al World Trade Center e al Pentagono ma, semmai, il risultato dello tsunami che ne è seguito.

    Paradossalmente, la data che ha cambiato la Storia dell’umanità non è l’11 settembre 2001 ma il giorno successivo: il 12 settembre. Ovvero, il giorno in cui la più grande potenza economica, politica e militare al mondo ha deciso che quello non era un attentato terroristico ma un atto di guerra, e, come tale, meritava una risposta adeguata, a qualunque costo e a qualsiasi conseguenza.

    Senza nessuna inchiesta o dibattito pubblico, solo sull’onda dell’emotività popolare, l’allora Presidente Usa George W. Bush ha deciso che il mondo occidentale era entrato ufficialmente in guerra con quello islamico.

    Oggi tendiamo a darlo per scontato, e ad accettarne in qualche modo gli effetti collaterali, ma non è affatto scontato che l’unico epilogo possibile fossero le guerre in Afghanistan e in Iraq e la reazione a catena che quei due conflitti hanno provocato nel mondo intero nei due decenni successivi.

    Senza scadere nel complottismo, persino il più grande attentato terroristico di tutti i tempi, da solo, non avrebbe potuto giustificare tutto quello che è venuto dopo. Persino i falchi più rapaci del fondamentalismo teo-con oggi sono costretti ad ammetterlo.

    La verità, perlopiù accettata universalmente, è che l’11 settembre 2001 non sia stato altro che la potentissima miccia di una bomba che, prima o dopo, sarebbe esplosa comunque. Un gigantesco acceleratore di particelle che ha finito col far precipitare in pochi mesi una serie di eventi, spinte, pulsioni e conflitti sotterranei che, in condizioni normali, avrebbero impiegato anni per arrivare in superficie.

    Esattamente come, quasi un secolo prima, l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo da parte di uno sconosciuto nazionalista serbo-bosniaco ha trascinato nel giro di qualche settimana un intero continente (e, in seguito, il mondo intero) in una guerra che da anni ribolliva sotto la superficie.

    Il 12 settembre all’alba, quando ci siamo svegliati, il mondo, così come lo conoscevamo, non era più lo stesso in cui eravamo andati a dormire la sera prima. Solo che ancora, di preciso, nessuno di noi lo sapeva. E per molto tempo dopo ancora, per la verità, abbiamo continuato a vivere tutto sommato in un mondo che era, a livello pratico, pressoché identico a quello precedente.

    C’è un luogo pubblico che, da quel giorno, non è stato più lo stesso: l’aeroporto. Nel giro di un paio di mesi, i principali scali mondiali sono diventati a tutti gli effetti delle zone militari ad uso civile e commerciale.

    Ogni singolo passaggio all’imbarco, che oggi fa parte della nostra quotidianità, è il prodotto e la conseguenza di quella tragedia immane. Ma, più in generale, le nostre abitudini, il modo in cui mangiamo, lavoriamo e passiamo il tempo libero è vieppiù identico a come lo facevamo prima dell’11 settembre.

    Se siete alla ricerca di date epocali, provate con il 15 novembre 1999 quando l’allora Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha firmato un accordo per l’ingresso della Cina nel WTO, l’organizzazione mondiale del commercio.

    Gli economisti lo hanno ribattezzato “Il grande shock cinese” e il motivo non è difficile da comprendere. Oppure con il 15 settembre 2008, quando i dipendenti della banca d’investimenti Lehman Brothers sono usciti per le strade di Wall Street con gli scatoloni in mano, offrendo ai fotografi lo scatto simbolo della crisi economica più profonda, durevole e devastante della storia moderna.

    O, tornando ancora più indietro, alle 22.30 del 29 ottobre 1969, l’ora e il giorno in cui è partito e arrivato a destinazione il primo messaggio mai inviato con una nuova tecnologia dell’epoca nota come Internet.

    Il combinato disposto di queste tre date ha cambiato il modo in cui gli esseri umani hanno organizzato il proprio modo di stare al mondo più di tutti gli altri eventi o avvenimenti, insieme, dell’ultimo mezzo secolo.

    Eppure non c’è oggi – e chissà se esisterà mai – una data che ha modificato così profondamente la geografia emotiva e intima di una nazione e del mondo intero come è riuscita a fare l’11 settembre 2001.

    Se dovessi raccontare a mio figlio cos’è stato l’11 settembre, non avrei dubbi: è l’ultimo giorno in cui ci siamo guardati con uno sconosciuto senza provare, anche solo per un decimo di secondo, una sorta di diffidenza, di legittimo sospetto.

    È il giorno in cui abbiamo perso l’innocenza, e l’abbiamo sostituita con una specie di permanente sfiducia nei confronti del mondo che ci circonda. È come se la sbornia degli anni ’90, attraversati con la convinzione che, dalla caduta del Muro in avanti, avremmo vissuto in una nuova epoca di apertura, multiculturalismo e unione dei popoli, avesse lasciato spazio a un severissimo hangover da cui ancora oggi non ci siamo rialzati.

    La stessa insofferenza nei confronti dei migranti e la violenza verbale e fisica con cui vengono gestiti fenomeni migratori epocali, se ci pensate, sono un’eredità morale (e mortale) delle due torri.

    L’associazione “immigrazione, sicurezza e terrorismo” (come se appartenessero alla stessa sfera semantica), in qualche modo è cominciata nell’attimo in cui il primo Boeing si è schiantato sulla Torre nord del World Trade Center.

    Mentre per il diciottesimo anno consecutivo ci ritroviamo a piangere le vittime che ogni anno crescono a decine e a ricordarci chi eravamo prima, la verità è che ancora oggi questo evento epocale rimane sospeso in una sorta di limbo perenne, non abbastanza recente da essere trattato come attualità né abbastanza remoto (ed elaborato) da essere consegnato alla Storia.

    Abbiamo creduto di aver detto tutto su cosa è avvenuto davvero quel giorno e nei vent’anni successivi, ma ci siamo dimenticati di parlare di Noi. È strano: abbiamo in mano la mappa più precisa e accurata ed esatta al mondo, e non abbiamo la più pallida dove stiamo andando.

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