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    Zvonko è morto a 33 anni per Coronavirus: “Nessun controllo sui suoi contatti nel campo rom”

    A sinistra l'Istituto per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani. A destra Jovanovic Stanoje, morto a 33 anni dopo essere risultato positivo al Coronavirus

    Jovanovic Stanoje, detto Zvonko, viveva con la moglie e quattro figli in una casa popolare. Nei giorni precedenti la malattia, aveva avuto contatti con gli abitanti del campo rom di via Salviati, a Roma, ma nessun tampone è stato effettuato sui residenti

    Di Marco Grieco
    Pubblicato il 28 Apr. 2020 alle 09:46 Aggiornato il 28 Apr. 2020 alle 10:43

    Zvonko è morto a 33 anni per Coronavirus: “Nessun controllo sui suoi contatti nel campo rom”

    Quando ai familiari di Jovanovic Stanoje viene comunicato il suo decesso, all’ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma, la moglie non può credere alle proprie orecchie. Suo marito, 33 anni, ha sempre avuto uno stile di vita sano: niente fumo né alcool. Il 24 marzo alle 22.30 Jovanovic, Zvonko per gli amici, è la più giovane vittima del Lazio. Da sette anni, il serbo viveva con la moglie e quattro figli in una casa popolare del Quarticciolo di Roma, ma era cresciuto al campo rom di via Salviati, dove tuttora abitano i suoi parenti ed amici che, nei giorni precedenti la malattia, lo avevano frequentato. Nonostante le insistenze dei residenti del campo, nessuno ha mai pensato di eseguire i controlli nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, tantomeno effettuare i tamponi ai 300 residenti del campo.

    Resta un mistero su come un giovane in apparente buona salute abbia contratto il Coronavirus e nel campo rom la paura è ancora tanta. Bosko era amico stretto di Jovanovic, e ha seguito tutta la vicenda. Tutto inizia i primi di marzo (1-2 marzo), quando l’uomo avverte la febbre e un po’ di tosse. Sebbene non si senta in forma, decide di andare con il figlio di 13 anni a una festa in un ristorante romano: “C’erano almeno 200 persone, tutti rom e sinti” riferisce Bosko. Ma la febbre nei giorni successivi non scende. E mentre alla città di Codogno è imposta la quarantena, anche il giovane serbo si autoimpone un isolamento: un’utopia nel piccolo appartamento che divide con la moglie, due gemelli di otto anni, una figlia di cinque e un adolescente. Ma non ha scelta: la febbre non scende, tantomeno la tosse.

    Quando sopraggiungono i dolori al petto, Jovanovic telefona a una guardia medica privata con un’ambulanza a pagamento – come riferisce sua nipote. Quell’ambulanza, però, non porterà il giovane in ospedale: stando ai familiari che erano lì con lui, gli operatori gli diagnosticano una broncopolmonite, gli prescrivono un farmaco e assoluto riposo. Ma né il riposo né i farmaci giovano all’uomo. La tosse persiste e, qualche giorno più tardi, al Quarticciolo sopraggiunge una seconda ambulanza: “Hanno chiamato il 118”, riferisce Bosko. Anche stavolta, Jovanovic resta a casa con l’indicazione di continuare la terapia farmacologica prescritta pochi giorni prima.

    Intanto la zona rossa, un tempo circoscritta alla Lombardia, si allarga a livello nazionale. Si registrano casi a Roma, ma a Jovanovic non è fatto alcun tampone. Il 33enne continua a vivere in casa con la moglie e i figli, gli fanno visita la madre, i familiari che abitano nel campo di via Salviati e a Tor Tre Teste e una vicina che gli fa le punture. Tre giorni dopo l’ultima ambulanza, il fratello e la moglie portano l’uomo, visibilmente grave, all’ospedale Sandro Pertini. È il pomeriggio del 10 marzo e gli viene fatto il tampone. L’11 marzo a mezzogiorno arriva l’esito: positivo al Coronavirus. Il 33enne viene intubato e trasferito d’urgenza all’ospedale Lazzaro Spallanzani, il primo hub della Capitale deputato alla gestione del Covid-19.

    Una settimana dopo, i suoi familiari vengono contattati telefonicamente dall’ospedale: “La situazione è critica, è collassato un polmone”, riferisce l’amico. Il 24 marzo alle 22.30, Jovanovic muore a 33 anni. In un mese, nonostante due chiamate all’ambulanza nel giro di cinque giorni, nessuno ha pensato di fare un tampone né al giovane né ai familiari. Jovanovic è ancora al Sandro Pertini quando suo fratello insiste perché si facciano i tamponi almeno ai parenti più stretti, inclusi il padre anziano e la madre, che vivono nel campo di via Salviati. Sono i giorni in cui tutta Italia scopre la contagiosità di un virus subdolo che può trasmettersi anche attraverso gli asintomatici. Ma per i familiari ottenere un tampone è dura. Solo dopo insistenze, viene prescritto un primo tampone alla moglie, ai figli e alla cognata del 33enne. È passato quasi un mese dall’insorgenza della febbre del marito: la moglie risulta negativa, così come i figli.

    Quattro giorni dopo il ricovero di Jovanovic allo Spallanzani, anche suo zio viene ricoverato per sospetto Covid-19. L’uomo, 65 anni, vive con la moglie, due figli e la nuora in un appartamento nel quartiere Tuscolano. La sua salute peggiora ed è trasportato all’ospedale di Rieti. Sette giorni dopo la morte del nipote, muore anche lo zio. Ai familiari vengono fatti i tamponi: moglie e figlio risultano positivi. Lo zio era venuto a contatto con Zvonko nelle settimane precedenti ma, anche in questo caso, nessuno ricostruisce i suoi spostamenti.

    La cognata di Jovanovic vive con il marito e tre bambini in una casa popolare a Tor Tre Teste e, nei giorni di malattia del cognato, ha aiutato la famiglia nelle faccende domestiche. È a lei che il tampone dà esito positivo. Dato che apparentemente è in salute, gli addetti le prescrivono l’isolamento assoluto in casa. Ma quel tampone sarà il primo di una lunga serie. Mentre Jovanovic è ricoverato nella terapia intensiva dello Spallanzani, sua moglie riceve una chiamata. Gli operatori, però, vogliono parlare con la cognata, alla quale non avevano chiesto un numero di telefono: “Quella ragazza non è positiva, abbiamo sbagliato cartelle – riferiscono -. Dobbiamo rifare il tampone”. L’esito del secondo tampone – dicono i familiari – arriva dopo dieci giorni, ed è incerto. Incerto anche il terzo tampone, al punto che si ritiene necessario farne un quarto: alla fine, la donna, madre di tre figli, risulta negativa. Viene, però, da chiedersi se, a distanza di circa un mese dalla morte del cognato, non si sia invece negativizzata.

    Quando i familiari hanno chiesto spiegazioni alla Asl, è stato risposto loro che non lo sapevano. Agli anziani genitori di Jovanovic, che vivono nel campo di via Salviati, nessuno ha fatto inizialmente il tampone, nonostante pesino due elementi: nei giorni precedenti il ricovero, la vittima era venuta a contatto con la madre, ed entrambi vivono in un campo con 300 persone, dove il distanziamento sociale è pressoché impossibile. È proprio al campo che la situazione comincia a preoccupare subito dopo la morte dell’uomo. In tanti, che i primi di marzo erano venuti a contatto con lui nel campo, chiamano il numero verde per avere dei tamponi. Anche Bosko, padre di due figli, contatta ripetutamente il numero verde, ma invano: “Ho prima chiamato loro, dopo l’Asl. Mi è stato detto di rimanere a casa per due settimane, misurando la febbre due volte al giorno e chiamare un’ambulanza solo nel caso di sintomi” ha riferito. Eppure, “il campo di Via Salviati è fra i meno numerosi” sottolinea Dijana Pavlovic, rappresentante di Kethane. Rom e Sinti per l’Italia. “Al campo romano di via Luigi Candoni, per esempio, ci sono tra le 700 e 800 persone in condizioni così promiscue che mantenere la distanza è impossibile” riferisce.

    Dijana monitora con Kethane la situazione di Rom e Sinti di tutta Italia e conosce bene la realtà del campo di via Salviati: “Subito dopo la morte del giovane, i residenti del campo si sono isolati e hanno chiesto dei tamponi. A nessuno del campo, nei giorni successivi al decesso, ne è stato fatto uno, c’è chi ha già finito la quarantena. Nei campi manca anche l’acqua potabile, elemento essenziale per consentire l’igiene dei luoghi” sottolinea. Accanto all’emergenza sanitaria, nei campi rom d’Italia ne sopraggiunge un’altra: quella umanitaria. Il 16 marzo scorso, Dijana invia una lettera al Vice capo gabinetto del Comune di Roma, Marco Cardilli, in cui denuncia la condizione di estremo bisogno a cui sono esposti circa 3mila rom e sinti romani. “Ho chiamato in Comune per chiedere di attivarsi nella fornitura di generi di prima necessità – dice -: nei campi circa metà della popolazione è composta da minori, per cui la priorità sono pannolini e saponi, assieme al cibo”.

    Il 28 marzo, Dijana viene contattata dall’Ufficio Rom, Sinti e Caminanti del Comune di Roma e le viene riferito da una responsabile d’ufficio che la Protezione Civile non può entrare nei campi, che vengono assistiti solo anziani e malati di Coronavirus e che, al massimo, si possono fornire cinque pacchi alimentari. Quando Dijana chiede come mai la Protezione Civile non possa farlo, le viene risposto: “La Protezione Civile fa capo al sindaco. Se c’è una decisione del sindaco, vanno, altrimenti no”. La Caritas, dal canto suo, fornisce operatori per la distribuzione di viveri, ma stavolta mancano i pacchi alimentari. “So che la Regione Lazio ha messo a disposizione del Comune di Roma 300mila euro da stanziare in pacchi alimentari – specifica Dijana -. Ho chiesto anche al Comune di poter utilizzare i soldi dell’ufficio inclusione per comprare il cibo, ma la responsabile d’ufficio mi ha risposto che non sa cosa dire. Ho l’impressione che sia stata lasciata da sola a gestire la situazione”.

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