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    “Le misure anti-Covid limitano i diritti umani”: ecco le categorie che sono state discriminate

    Proteste contro le misure anti covid a Manchester Credits: ANSA
    Di Veronica Di Benedetto Montaccini
    Pubblicato il 7 Apr. 2021 alle 16:49

    Il 56 per cento dei paesi ha discriminato parte della sua comunità, la più marginalizzata, nell’adottare le misure di contenimento del virus. Una situazione che si è verificata in 83 paesi dei 149 osservati ed analizzati nell’ultimo rapporto di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nell’anno del Covid-19.

    “Un mondo in preda al caos”

    Mesi in cui le disuguaglianze, le discriminazioni e l’oppressione hanno corso in maniera più accelerata rispetto agli altri anni e che hanno visto le scelte dei governi essere catalizzatori di questa crescita. “La pandemia ha brutalmente mostrato e acuito le disuguaglianze all’interno degli Stati e tra gli Stati e ha evidenziato l’incredibile disprezzo che i nostri leader manifestano per la nostra comune umanità. Decenni di politiche divisive, di misure di austerità errate e di scelte di non investire nelle traballanti strutture pubbliche hanno fatto sì che in tanti finissero per essere facili prede del virus”, ha dichiarato Agnès Callamard, nuova segretaria generale di Amnesty International. “Abbiamo di fronte un mondo in preda al caos. Arrivati a questo punto della pandemia, anche i più reticenti tra i leader al potere si troverebbero in difficoltà a negare che i nostri sistemi sociali, politici ed economici sono a pezzi”.

    In 42 Paesi intimidazioni a operatori sanitari

    Quello trascorso è stato un anno dove la paura di rimanere contagiati ha oscurato molte volte il buon senso e la ragione. In altrettanti 42 paesi si sono verificate situazioni in cui gli operatori sanitari, o lavoratori essenziali nel contesto della pandemia, sono stati intimiditi o vessati da parte dei loro governi. Lavoratori che, in piena emergenza, si sono ritrovati ad operare in sistemi sanitari deliberatamente smantellati. In Bangladesh, a causa del lockdown e del coprifuoco, molti del settore informale sono rimasti senza reddito né protezione sociale, mentre in Nicaragua sedici operatori sanitari sono stati licenziati per aver denunciato la mancanza di dispositivi di protezione e l’incapacità dello Stato di far fronte all’emergenza in atto.

    L’intimidazione è stata un’arma più volte usata da parte delle autorità per porre un freno alle notizie su virus, molte delle quali vere e scientificamente provate. È la stessa segretaria Camallar a sottolineare come “le risposte dei nostri leader sono state di volta in volta mediocri, mendaci, egoiste, fraudolente. Alcuni hanno cercato di normalizzare le eccessive misure di emergenza adottate per contrastare la pandemia, altri sono andati persino oltre, intravedendo la possibilità di rafforzare il loro potere. Invece di sostenere e proteggere le persone, hanno semplicemente usato la pandemia come un’arma per attaccare i diritti umani”.

    La repressione delle proteste

    L’esacerbazione di realtà già esistenti ha anche dato la spinta definitiva a quei movimenti di protesta prima addormentati all’interno dei vari paesi e la conseguente risposta dei governi. Sono state riscontrare sparizioni forzate in almeno 40 paesi, la tortura e i maltrattamenti in almeno 87, di cui 41 con esiti mortali.

    È il caso della Nigeria, dove migliaia di persone sono rimaste uccise dalla repressione delle forze dell’ordine durante le proteste. Così come dell’India, alle prese con una rivolta agricola da mesi che sta mettendo in grave crisi il governo di Nerendra Modi, che ha inasprito anche i controlli sulla società civile con la scusa del terrorismo, entrando nelle case dei cittadini con veri e propri raid. Nel Brasile del presidente Jair Bolsonaro, inizialmente negazionista con il virus e poi protagonista di una gestione pandemica per il 54 per cento dei brasiliani giudicata “terribile”, nei primi sei mesi dello scorso anno sono morte 17 persone al giorno uccise dalle forze dell’ordine, per un totale che a giugno 2020 ammontava ad almeno 3.181 persone. Numeri che Amnesty si augura “possano migliorare nel 2021”.

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