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    “Rabbia sociale e facilità di procurarsi armi: così in Italia si arriva anche a uccidere un figlio”: Luca Di Bartolomei a TPI

    Il figlio di Agostino Di Bartolomei parla a TPI della tragedia di Rivara Canavese, dove un uomo ha ucciso il figlio di 11 anni per poi suicidarsi: "Quando la depressione e la disperazione si saldano alla potenza e all’univoca finalità delle armi da fuoco è la fine"

    Di Giulio Cavalli
    Pubblicato il 21 Set. 2020 alle 14:28 Aggiornato il 21 Set. 2020 alle 14:29

    La tragedia di Rivara Canavese dove un padre, un uomo di 47 anni che da tempo soffriva di depressione, ha sparato e ucciso il figlio di 11 anni e poi si è tolto la vita,  ha riacceso il dibattito sul disagio mentale e sulla disponibilità di armi. Questa mattina Luca Di Bartolomei, figlio dell’ex calciatore ed ex capitano della Roma Agostino, che vinse il secondo scudetto e che si sparò la mattina del 30 maggio 1994, sul suo account Twitter riportando la notizia di Rivara ha scritto: “Andrea si chiamava come mio figlio ed è stato ucciso ad 11 anni, quanti ne avevo quando Ago si è sparato, da padre depresso. Sulle troppe armi che girano – sia legali che illegalmente detenute, spesso acquistate per poche centinaia di euro – il governo dovrebbe intervenire subito”. TPI lo ha intervistato per capire il suo punto di vista sulla vicenda.

    Cosa ha pensato stamattina leggendo la notizia?
    Mi è capitata una cosa che mi capita di rado, non perché io sia cinico, soprattutto con la mia storia: mi è venuto da piangere. Ho pensato a questo ragazzo di 11 anni che si addormentava e l’ultima cosa che aveva fatto probabilmente era stata quella di dare un bacio a suo padre. Ho pensato a quando hai 11 anni e hai dei sogni, tuo padre è il tuo mito. Come si fa a pensare a un gesto del genere, da padre? Se sei depresso sparati. Lo so bene cosa significa. Capisco che si debbano ascoltare le ragioni di tutti ma bisogna anche avere il coraggio di dire che no, che le ragioni di tutti non vanno bene. Bisogna essere comprensivi con chi fa un gesto del genere, e lo so bene per esperienza personale, ma non si può pensare che a 11 anni sia immaginabile morire così.

    Vista anche la sua esperienza, lei pensa che sul tema della depressione si stia facendo troppo poco, se ne parli troppo poco, se ne parli male?
    Io sono stato figlio di un depresso inaspettato, di una depressione di cui ci siamo accorti con un minuto di ritardo. Sicuramente gli italiani hanno un gigantesco problema a parlare dei loro problemi. Questo lo vediamo anche dai numeri. Dopo avere scritto “Dritto al cuore” (libro uscito per Baldini & Castoldi nda) ho dovuto fermarmi un attimo perché avevo le vertigini: i numeri delle persone che fanno ricorso a farmaci e a cure di carattere psicologico e psichiatrico sono enormi. Il livello di tensione che noi avevamo anche prima del lockdown è gigantesco. Abbiamo il 37 per cento di 18mila intervistati che si dichiara “disperato”, secondo una ricerca che uscirà nelle prossime settimane fatta dalle Università di Roma Tre e de L’Aquila. Il 90 per cento degli italiani ha paura per il proprio futuro, di perdere il lavoro, che è la principale delle angoscia di questo Paese. Il problema è quando si cammina in maniera spensierata, quando c’è un un pezzo fortunato di Paese che detta la linea e che lascia che il resto d’Italia cammini in maniera spensierata su un baratro. Noi siamo così.

    E le armi da fuoco diventano quindi un rischio…
    Quando la depressione e la disperazione si saldano alla potenza e all’univoca finalità delle armi da fuoco è la fine. Il fatto di uccidere un figlio è la cosa più inimmaginabile a cui si possa pensare: da lì alla follia di scendere per strada e sparare a chiunque incontri il passo è breve, non c’è differenza.

    Crede che la facilità di procurarsi, legalmente e illegalmente, armi da fuoco sia una questione urgente?
    Siamo di fronte a una diffusione enorme delle armi in questo Paese. Quando ho scritto il mio libro in Italia c’erano quasi 12 milioni di armi legalmente detenute, un’arma ogni cinque persone. A Roma ci sono più di 250mila persone che hanno il porto d’armi, in Lombardia mediamente si denunciano all’anno 4-5mila furti in cui viene denunciato anche il furto di un’arma che è una delle cose più semplici da vendere. Reperire un’arma oggi sul mercato “nero” è molto semplice, un’arma usata di dubbia provenienza costa meno di 200 euro. O noi facciamo un grande intervento per ricostruire un senso di tranquillità nel nostro Paese andando a ridurre in tutti i modi possibili la diffusione delle armi, oppure non ridurremo mai il numero di incidenti, di omicidi e di suicidi. Soprattutto in un momento come questo, in un’era post Covid, con un futuro che tutte le analisi dipingono drasticamente cambiato. O noi iniziamo a pensare a come rapportarci con questo drastico cambiamento oppure ci saremo autocostruiti una lotta di classe ferocissima tra poveri, in cui la disperazione successiva alla perdita del lavoro porterà le persone ad ammazzarsi e ad ammazzare. Andrà a finire tutto in una deriva terribilmente violenta e classista. Siamo di fronte a un bivio: c’è una quota di paura, di ansia e di disperazione, di inquietudine enorme che la vicenda Covid ha fatto ulteriormente detonare.

    Come sta agendo la politica su questo tema?
    C’è senso di responsabilità? Io credo di sì. Dalla fine dell’anno passato io ho avuto l’opportunità insieme a diverse associazioni, penso a “Ogni volta” e “Opal”, di interlocuzione con il ministro Speranza che è stato incredibilmente disponibile, abbiamo in queste ultime settimane interloquito con il ministro Franceschini che ci ha assicurato sostegno e anche con il ministro Di Maio che è stato molto disponibile. Noi speriamo in un decreto interministeriale che attivi finalmente una banca dati comune affinché le posizioni di chi ha un porto d’armi ed è soggetto a cure psicologiche e psichiatriche prevedano la revoca del porto d’armi.

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