Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
  • Cronaca
  • Home » Cronaca

    Ossigenoterapia, desametasone, plasma: cosa funziona e cosa no per il Covid

    Di Leonardo Biscetti
    Pubblicato il 20 Mag. 2022 alle 14:21 Aggiornato il 20 Mag. 2022 alle 14:22

    Nell’ultima puntata di “Parole chiare in medicina”, abbiamo parlato di Omicron e abbiamo chiarito che: i)nel contesto attuale, in ragione di una immunoevasività nettamente maggiore e forse di una maggiore contagiosità intrinseca, Omicron è risultata essere molto più diffusiva di Delta, tanto da averla soppiantata pressoché completamente in tutto il mondo; ii) vuoi per una probabile minore virulenza intrinseca vuoi soprattutto per l’alta percentuale di soggetti immunizzati (vaccinati e/o guariti) che si trova di fronte, Omicron mostra oggi una letalità, cioè un rapporto morti/infetti, sicuramente minore di quella di Delta; iii) nonostante la minore letalità, Omicron ha però dimostrato di avere, per via della maggiore diffusività, una mortalità- ovvero un rapporto morti/ esposti (che, semplificando, deriva dal numero dei morti totali in un data popolazione)- spesso paragonabile e in alcuni Paesi addirittura superiore rispetto a Delta (altro che raffreddore!): detto più semplice: pur con le cautele che si devono applicare quando si confrontano periodi diversi, possiamo dire che Omicron oggi in termini assoluti nel mondo contagia più di quanto ha contagiato delta e mantiene una mortalità molto alta (in alcuni contesti, come gli Stati Uniti, addirittura ha ucciso  più di quanto ha fatto Delta); iv) i vaccini con tre dosi proteggono in maniera eccellente dalla morte e dall’ospedalizzazione da Omicron (i dati ISS ci dicono che nel contesto attuale italiano, in caso di infezione da Sars Cov 2, i non vaccinati hanno un rischio di morire 9 volte maggiore dei vaccinati con tre dosi); v) anche se in misura sicuramente minore rispetto alle varianti precedenti, la vaccinazione con booster protegge parzialmente anche dal contagio da Omicron (quindi vaccinarci continua a difendere almeno in parte non solo noi stessi ma anche gli altri): tuttavia, questa protezione tende a calare nel tempo, fino a praticamente a scomparire a distanza di 4-5 mesi dalla terza dose.

    Chiarito ciò, va detto che la pandemia continua purtroppo a regalarci sorprese negative, con buona pace di tutti quegli psuedoesperti che nel 2020 ci dicevano che nessuna epidemia su scala globale è mai durata più di due anni e quindi era solo questione di tempo e a breve il Covid non sarebbe stato più un problema. In realtà, ciò che sta avvenendo è che il virus circolando molto continua ad evolvere e nuove varianti si creano: dapprima la versione di Omicron  detta BA.1  che dal Sudafrica si era rapidamente diffusa a livello globale è stata in buona parte surclassata da una variante sorella (non figlia!), detta BA.2, che è risultata più contagiosa; oggi altre varianti, in particolare BA.4 e BA.5 in Sudafrica e BA.2.12.1 (figlia di BA.2) negli Stati Uniti sembrano cominciare a prendere il sopravvento rispetto a BA.1 e BA.2, facendo crescere in quei Paesi i contagi e (sebbene per fortuna finora solo marginalmente) pure i ricoveri. Dati preliminari relativi alla capacità neutralizzante degli anticorpi indotti da Omicron BA.1 rispetto a BA.4 e BA.5 (su BA.2.12.1 non sappiamo ancora niente!) suggeriscono poi che queste nuove varianti sfuggono almeno in parte all’immunità indotta da un’infezione precedente da Omicron BA.1 e quindi vanno assolutamente tenute d’occhio (la cosa buona è che nelle persone guarite da Omicron BA.1 che erano anche vaccinate la protezione anticorpo-mediata rispetto a BA.4 e BA.5 sembra, ancorché non perfetta, nettamente superiore rispetto a quella riscontrata nelle persone guarite da Omicron BA.1 ma  non vaccinate, ad ennesima conferma dell’utilità dei vaccini!) .

    D’altro canto, se da una parte è assolutamente necessario non abbassare la guardia e non cedere ad un ottimismo facilone rispetto a queste mutazioni del virus, non c’è comunque al momento neanche ragione di diffondere il panico in relazione all’evoluzione della pandemia: infatti, pur con tutte le dovute cautele, stante le strette analogie molecolari tra BA.1 e le varianti o sottovarianti figlie o sorelle di BA.1, è ragionevole pensare che lo scudo offerto dai vaccini e/o dalle precedenti infezioni continuerà a funzionare comunque bene su larga scala anche contro queste nuove sottovarianti di Omicron almeno rispetto al rischio di ospedalizzazione e morte. Ad ogni modo, come di consueto in questa rubrica, parleremo nel dettaglio di questi aspetti solo se diventeranno un reale problema di sanità pubblica e se e quando i risultati della ricerca scientifica a riguardo risulteranno sufficientemente solidi.

    In attesa quindi di dati consolidati sulle nuove sottovarianti di Omicron, in questa puntata parleremo di altro, ovvero delle cure e di come la ricerca scientifica abbia messo a disposizione dei medici nuovi farmaci utili (ancorché non risolutivi) per combattere il Covid 19.

    Avevamo parlato di cure contro il Covid 19 già in due puntate precedenti della rubrica (qui) e qui. Da allora, alcuni punti fermi della terapia sono rimasti validi, altri aspetti invece, in ragione dell’evoluzione della pandemia e delle nuove conoscenze acquisite, sono stati superati.

    I punti fermi ad oggi ancora validi sono i seguenti:

    1. Nei pazienti con COVID lieve gestibile a domicilio a basso rischio di evoluzione sfavorevole, i farmaci di elezione sono paracetamolo e i farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS), come ad esempio l’ibuprofene o l’aspirina;
    2. Nel COVID grave che richiede ossigenoterapia il desametasone (che appartiene alla famiglia dei corticosteroidi) riduce moderatamente la mortalità, ma non rappresenta la soluzione finale.
    3. Il plasma iperimmune non serve assolutamente a nulla nel COVID grave (di questo siamo certi!), mentre non è un’opzione da scartare a priori nella cura precoce dei pazienti a rischio di evoluzione sfavorevole, pur con tutti i limiti pratici legati alla somministrazione di questo prodotto già ampiamente discussi nei precedenti articoli a cui si rimanda per chi volesse approfondire l’argomento. Un’utile conferma della possibile efficacia del plasma come terapia precoce è giunta da un recentissimo trial pubblicato sul New England Journal of Medicine, che però- è giusto sottolinearlo- è stato condotto in epoca pre-Omicron;
    4. L’idrossiclorochina, da sola o in combinazione con l’azitromicina, e l’ivermectina non funzionano nel COVID 19. Sull’ivermectina l’ennesima prova di inefficacia è venuta da questo recentissimo trial pubblicato su New England Journal of Medicine.

    A fronte di questi punti fermi, nuove evidenze scientifiche si sono accumulate nel frattempo, cambiando in parte lo scenario e aumentando le armi a disposizione per noi clinici per far fronte a questa spesso pericolosa malattia, come ben illustrato in questo aggiornatissimo documento prodotto dall’AIFA, l’agenzia nazionale del farmaco. In particolare:

    1. Due farmaci antivirali, entrambi somministrabili per via orale, il molnupiravir (nome commerciale Lagevrio prodotto dall’azienda Merck) e il nirmatrelvir-ritonavir (nome commerciale Paxlovid messo a punto da Pfizer) hanno dimostrato rispettivamente una discreta e un’ottima efficacia nel ridurre il rischio di ricovero nei pazienti non ospedalizzati per COVID 19 a rischio di evoluzione sfavorevole, purché somministrati nei primi giorni di malattia. In particolare, in uno studio coinvolgenti 1408 soggetti affetti da Covid 19 tutti non vaccinati in cui il Lagevrio è stato testato in doppio cieco contro placebo è emersa un’efficacia di circa il 30% nella riduzione del tasso di ospedalizzazione. Il Paxvolid è stato invece sperimentato in un altro trial sempre contro placebo in doppio cieco (per cui né il paziente né lo sperimentatore conoscevano il gruppo di assegnazione) coinvolgente 2085 pazienti, anche qui tutti non vaccinati. Alla fine dello studio, erano stati ospedalizzati lo 0.8% dei pazienti nel gruppo Paxlovid e il 6.3% nel gruppo placebo, per un’efficacia del farmaco pari all’88% in termini di riduzione del tasso di ospedalizzazione. Risultati ottimi, alla luce dei quali il medicinale ha ricevuto l’approvazione EMA. Ovviamente non si possono tacere alcune problematiche relative a questi farmaci antivirali, ad esempi i costi o le possibili interazioni con altri medicinali (alcune verosimilmente ancora non note visto che li usiamo da pochissimo), ma senza dubbio rappresentano oggi uno strumento a cui attingere laddove appropriato.
    2. Il remdesivir, altro farmaco antivirale somministrabile però, a differenza di Lagevrio e Paxlovid, solo per via endovenosa, può rappresentare un altro presidio utile nella terapia precoce dei pazienti non ospedalizzati per COVID 19 a rischio di evoluzione sfavorevole, mentre la sua utilità nei pazienti ospedalizzati è ad oggi assai controversa, tanto che l’AIFA ha posto numerosi limitazione alla sua rimborsabilità se utilizzato nel contesto dell’ospedalizzazione. Come terapia precoce, il farmaco in questione è stato testato all’interno di un trial randomizzato controllato in doppio cieco contro placebo i cui risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine. In questo studio, 562 pazienti affetti da COVID 19 e non ospedalizzati che avevano sviluppato sintomi da meno di 7 giorni e che presentavano dei fattori di rischio per evoluzione sfavorevole (età maggiore di 60 anni, obesità o alcune condizioni mediche particolari, come ad esempio il diabete mellito) sono stati assegnati casualmente o al gruppo farmaco o al gruppo placebo in rapporto 1:1. Al termine dello studio, è risultato che il remdesevir riduceva dell’87% il rischio combinato di ospedalizzazione o morte e dell’81% la necessità di una visita medica di controllo entro 28 giorni per disturbi COVID-relati. Un dato di efficacia veramente notevole a fronte di una sicurezza ottima (la frequenza di effetti avversi è risultata infatti sovrapponibile tra il gruppo farmaco e il gruppo placebo). Alla luce di questi convincenti risultati, l’AIFA ha autorizzato il farmaco nei pazienti non ospedalizzati per COVID 19 a rischio di evoluzione sfavorevole. Nel contesto dei pazienti ospedalizzati, invece, come già accennato, i dati di efficacia sono molto meno solidi. Un primo studio in doppio cieco pubblicato sul New England Journal of Medicine aveva lasciato intravedere una capacità del farmaco di ridurre di circa il 50% i tempi di ricovero nei pazienti ospedalizzati che necessitano di bassi flussi di ossigeno, senza però un impatto certo sulla mortalità. Un altro trial chiamato Solidarity organizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, questa volta in aperto (e non in cieco e quindi potenzialmente a maggior rischio di bias), ma su una coorte di pazienti molto più numerosa non ha però confermato i risultati. Alla luce di questi dati contrastanti, l’uso generalizzato di questo farmaco non è ad oggi incoraggiato nel contesto dell’ospedalizzazione;
    3. Farmaci anti infiammatori/immunomodulanti ad alta potenza quali il tocilizumab (anticorpo monoclonale rivolto contro una citochina infiammatoria chiamata interleuchina 6, da non confondere con gli anticorpi monoclonali contro Sars Cov 2), il sarilumab (anticorpo contro il recettore dell’interleuchina 6) ,l’anakinra (farmaco antagonista del recettore dell’interleuchina 1) e il baricitinib (inibitore di una via di trasduzione del segnale cellulare con effetti pro-infiammatori, chiamata JAK-STAT) sono dei presidi utili e quindi in casi selezionati assolutamente da usare, da soli o se possibile in associazione al desametasone, nei pazienti ospedalizzati per COVID 19 grave/critico (per capirci pazienti che hanno bisogno di alti flussi di ossigeno e in cui si registrano livelli molto alti di infiammazione sistemica). Questi farmaci riducono moderatamente la mortalità (approssimativamente tra il 15 e il 55% a seconda dello studio considerato e della molecola presa in esame) e in alcuni casi i tempi di degenza, ma- va detto- non rappresentano una panacea (per maggiori dettagli, si rimanda alla nota AIFA.
    4. Nei pazienti ospedalizzati, un farmaco anticoagulante come l’eparina a basso peso molecolare, usato a dosaggi maggiori nei pazienti meno gravi e a dosaggi minori nei pazienti più gravi, migliora significativamente la prognosi. In particolare, in uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, dosi terapeutiche (quindi maggiori) di eparina nei pazienti non critici hanno migliorato il tasso di sopravvivenza senza necessità di supporto degli organi vitali rispetto a dose profilattiche (quindi più basse), mentre lo stesso risultato non è stato confermato nei pazienti critici, dove il rapporto costo/beneficio di dosi alte è risultato sfavorevole. Diciamo che in generale l’uso degli anticoagulanti nel COVID 19 moderato-grave trova il suo razionale nel fatto che il danno alla parete dei vasi (e in particolare ad una struttura chiamata endotelio) dovuto sia all’azione del virus che a quella dell’infiammazione sistemica induce l’attivazione di meccanismi pro-trombotici (aggregazione piastrinica e successivamente innesco della cascata della coagulazione) che possono per l’appunto essere antagonizzati da un farmaco come l’eparina a basso peso molecolare. I dati sperimentali sopra riportati suggeriscono però che questi meccanismi pro-trombotici si attivano verosimilmente in maniera relativamente precoce nei pazienti ospedalizzati e quindi vanno aggrediti con eparina a dosaggi alti quando il paziente non è ancora critico, mentre nel soggetto critico, se da una parte mantiene ancora una sua utilità la profilassi anticoagulante a bassi dosaggi, non è  giustificato l’uso di dosi alte per il rapporto costo/beneficio sfavorevole (teniamo presente che questi farmaci si associano a un rischio non trascurabile di emorragie e che la probabilità di questo effetto avverso è ovviamente dose-dipendente). Nei soggetti con malattia lieve gestibile a domicilio, invece, l’eparina non va usata affatto, perché in questo tipo di pazienti il rischio trombotico è basso e sarebbe maggiore il rischio emorragico legato al medicinale (anche quando usato a dosi basse).
    5. Gli anticorpi monoclonali contro Sars Cov 2 (che erano risultati essere un’ottima, sebbene non risolutiva, arma contro il virus nelle prime fasi della pandemia se usati come terapia precoce nei pazienti a rischio di evoluzione sfavorevole) hanno perso purtroppo quasi completamente la loro utilità in epoca Omicron. Questi farmaci sono una sorta di anticorpi artificiali rivolti contro la proteina Spike di Sars Cov 2 che erano stati creati per lo più combattere la forma originale del virus.  Ad ogni modo, avevano mantenuto una buona efficacia anche contro le prime varianti di Sars Cov 2. Quando però sono apparse sulla scena la varie sottovarianti di Omicron, dato l’altissimo numero di mutazioni in esse accumulate rispetto al virus originale, pressoché tutti questi medicinali, come dimostrato da uno studio pubblicato su Nature Medicine, hanno perso in tutto o in parte la loro capacità neutralizzante. In particolare, da questa e altre ricerche analoghe, è emerso che alcuni anticorpi monoclonali come bamlanivumab sono assolutamente inefficaci sia contro Omicron BA.1 che contro BA.2; altri come Sotrovimab mantengono una parziale efficacia contro BA.1 ma non sono efficaci contro BA.2; per altri ancora come Imdevimab è vero il contrario (parziale efficacia contro BA.2, ma non contro BA.1). Anche i cocktail anticorpali (come casirivimab + imdevimab o cilgavimab +tixagevimab) hanno perso gran parte della loro capacità neutralizzante contro Omicron, soprattutto verso la sottovariante BA.1 (ciò è vero in misura molto marcata per il primo e in misura sicuramente più lieve ma comunque significativa anche per il secondo cocktail). In definitiva, Omicron ha sparigliato e ha ridotto molto la convenienza ad usare- quale terapia precoce contro Covid 19- gli anticorpi monoclonali, che sono assai costosi e somministrabili solo per via endovenosa, per cui ad oggi ha molto più senso utilizzare gli antivirali orali, in primis laddove possibile e appropriato il Paxlovid, visto che gli antivirali orali, per come sono stati congegnati, risultano-almeno in linea teorica- poco sensibili alle mutazioni del virus (agiscono infatti inibendo enzimi necessari alla replicazione virale e non aggredendo, come gli anticorpi monoclonali, la proteina spike, che è per l’appunto una delle porzioni del virus più soggetta a mutazioni).

    In definitiva, riassumendo, con qualche semplificazione,  quanto illustrato finora, possiamo dire che: nei pazienti con malattia lieve e gestibile a domicilio  a basso rischio di evoluzione sfavorevole, i farmaci di elezioni sono paracetamolo o FANS; nei pazienti non ospedalizzati ad alto rischio di progressione, usiamo gli antivirali; nei pazienti ospedalizzati non critici usiamo l’eparina a dosaggio alto; nei pazienti ospedalizzati critici, usiamo l’eparina a dosaggio basso e gli antiinfiammatori (desametasone in primis e laddove appropriato anche i farmaci immunomodulanti a target molecolare).

    Da un punto di vista più generale, il concetto base è utilizzare farmaci contro il virus nelle fasi precoci (laddove il danno è indotto principalmente da Sars Cov 2) e farmaci anticoagulanti e anti-infiammatori nelle fasi tardive (laddove il danno è prodotto da meccanismi trombotici e infiammatori e solo marginalmente dal virus in sé).

    Concludendo, possiamo dire che se i vaccini rappresentano a tutt’oggi il caposaldo fondamentale nella lotta al Covid 19 risultando un’arma straordinaria, seppur imperfetta, nella prevenzione della malattia (in particolare, rispetto a morte e ospedalizzazione), i farmaci finora messi a punto sono uno strumento anch’esso utile-sebbene non risolutivo- che dobbiamo sfruttare, laddove appropriato, per curare i malati che ne hanno bisogno al fine di contenere gli effetti nefasti di questa maledetta pandemia. In effetti, contrariamente a certa vulgata no-vax che sostiene che le aziende rinunciano a fare ricerca sui farmaci e le autorità sanitarie tendono a non supportare le cure per costringerci a vaccinarci, la realtà è che le ditte farmaceutiche stanno investendo tantissimo sui prodotti farmacologici (basti pensare che l’antivirale che ad oggi sembra più efficace è stato creato dalla Pfizer, la stessa azienda che ha distribuito il vaccino più usato in Italia) e l’AIFA e in generale tutte le agenzie regolatorie hanno già autorizzato diverse molecole che si sono rivelate utili; e continueranno a farlo se la ricerca farmacologica troverà nuove soluzioni contro la pandemia. Insomma, fidiamoci della scienza e non degli stregoni complottisti.

    *** Questo articolo fa parte della rubrica di TPI “Parole chiare in medicina” tenuta dal medico neurologo dell’INRCA (Istituto Nazionale di Ricovero e Cura dell’Anziano) Leonardo Biscetti. Apparentemente sul Covid gli scienziati dicono tutto e il contrario di tutto. Vi faremo capire che la scienza non è un’opinione. Vi spiegheremo i dati e gli studi più recenti sulla pandemia. E non solo.
    Leggi l'articolo originale su TPI.it
    Mostra tutto
    Exit mobile version