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    “Dopo il virus, ecco come immagino la prossima puntata di Black Mirror”

    Un'analisi tra presente e futuro con Giovanni Ziccardi, professore di Informatica Giuridica all'Università Statale di Milano

    Di Selvaggia Lucarelli
    Pubblicato il 15 Apr. 2020 alle 06:46 Aggiornato il 15 Apr. 2020 alle 07:51

    Giovanni Ziccardi è professore di Informatica Giuridica all’Università Statale di Milano, dove coordina il Centro di Ricerca in “Information Society Law” (ISLC). I suoi ultimi lavori vertono sull’uso delle tecnologie in politica (“Tecnologie per il potere”, Raffaello Cortina),  sulla società controllata (“Internet, controllo e libertà”) e sulle espressioni d’odio (“L’odio online”). TPI lo ha intervistato sull’emergenza Coronavirus e sulle conseguenze della situazione attuale riguardo all’uso della tecnologia, con un focus anche sulla comunicazione  e la didattica a distanza.

    Partiamo dalle domande semplici: come va la tua quarantena?
    La mia quarantena è iniziata esattamente nel momento in cui doveva partire il secondo semestre di lezioni all’Università di Milano. Un periodo che è, anche da un punto di vista delle emozioni, ovviamente molto importante, anche se insegno a Milano ormai da 18 anni (il rivedere gli studenti in aula dopo la pausa invernaleè sempre molto suggestivo anche per chi fa questo mestiere da tanti anni). Purtroppo non siamo riusciti a tornare in aula e, dall’ultima settimana di febbraio, abbiamo iniziato a programmare la didattica online. Siamo, quindi, già da otto settimane chiusi in casa, non vediamo i nostri studenti dagli esami di dicembre/gennaio e attendiamo con ansia un po’ di “luce” per rivederli. La quarantena la sto passando a Milano tranquillo e molto ligio alle regole, in un quartiere dove tutto si svolge, per fortuna, in maniera abbastanza responsabile, e dopo tante settimane anche la fila ordinata fuori dagli alimentari sta diventando la normalità e non più l’eccezione.

    Non ho più un cane (anche se noto vicini che portano fuori al guinzaglio gatti, conigli e tartarughe), non ho figli e non faccio jogging, quindi non ho ancora usato né stampato una autocertificazione. Le uniche uscite sono per scendere a prendere i pacchi di Amazon o al supermercato di fronte per fare la spesa settimanale. Il mio quartiere si è ben organizzato anche con gruppidi aiuto (soprattutto agli anziani) e di supporto (anche economico) per chi sta soffrendo, soprattutto quando si avvicina la fine del mese. I ristoranti e i negozietti si sono organizzati per le consegne a domicilio e si è cercato il più possibile di fare andare avanti, almeno in apparenza, la vita del quartiere.

    Molti paragonano questa situazione al mondo di Black Mirror. Trovi davvero che “distopico” sia un aggettivo giusto per questo momento storico?
    Trovo la situazione attuale un misto tra le atmosfere di alcuni episodi di Black Mirror e le sceneggiature di alcuni film che parlano, appunto, di epidemie e di Ebola (che alcune reti hanno trasmesso, o stanno trasmettendo, proprio in questi giorni, con una certa dose di humor macabro). Di sicuro, ciò che ha sorpreso tutti è stata la rapidità della necessità di un cambio di vita, il fatto che da un giorno all’altro la situazione sia precipitata, soprattutto in Lombardia, e non ci sia stato tanto tempo per riflettere ma non restava altro che ripararsi in casa. Le prime settimane sono state vissute un po’ come in un film, in una “seconda realtà” che ci richiedeva nuove abitudini e che generava nuovi timori. Dopo le prime settimane, ha avuto il sopravvento, ovviamente, la realtà, e si è iniziato a osservare il quadro con più attenzione e con meno emozioni, ed è apparso il quadro veramente surreale.

    A ciò si è aggiunta la sensazione di essere in una “bolla”: è innegabile come ciò che è capitato in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e in parte in Piemonte sia ben diverso da ciò che è capitato, o sta capitando, in altre Regioni, per cui è apparsa subito evidente anche una grande difficoltà a trovare empatia, a cercare di far capire fuori di qui che cosa stesse realmente succedendo a Bergamo, ad esempio, o a Brescia, o nelle case di riposo e nelle residenze per anziani. La distopia, forse, stava e sta proprio nel fatto di vivere una realtà che, però, è difficile da veicolare a tutti nella sua tragicità. Quanti amici mi chiamano da tante parti d’Italia e la prima domanda che mi fanno è “ma davvero a Milano siete in quella situazione?”. Ecco l’idea di “quella” situazione contribuisce, a volte, alla sensazione di essere in un mondo parallelo.

    Credi che i social e la tecnologia, in qualche modo, abbiano ritrovato il loro scopo primario, ovvero “collegare” le persone? Penso alle immagini delle videochiamate in ospedale o addirittura i funerali in diretta Facebook.
    Sì, penso che la tecnologia e i vari servizi, pur con tutti i loro difetti, abbiano aiutato moltissimo in questo contesto. Hanno collegato le persone ma le hanno anche collegate in maniera diversa: la dilatazione del tempo ha permesso di approfondire meglio le conoscenze: non più impulsi, ma discorsi complessi. Non più sei o otto secondi al massimo di attenzione, ma maggiore tempo per riflettere e per, quindi, arricchire il dialogo. Ho trovato suggestive le connessioni attivate con le persone morenti, spesso anche grazie ai medici e agli infermieri che facevano da tramite, per consentire di cristallizzare – meglio, di “digitalizzare” – il momento della morte e per cercare in qualche modo di fare arrivare un messaggio ai parenti. Leggevo anche dei parti seguiti via tablet dai mariti a casa. Vita e morte che cercano di rimanere, in qualche modo, in digitale.

    La tecnologia, nella gestione del contenimento, è stata di fondamentale aiuto in alcuni paesi orientali. In Italia poco o niente. Abbiamo sviluppato app per monitorare le file al supermercato, perché non siamo stati capaci di creare altro?
    Penso che per sviluppare app di grande complessità, occorra tempo. Alcune app di utilità pratica ed immediata, magari in luoghi o ambienti circoscritti, sono utilissime ma anche semplici da sviluppare, spesso si possono produrre con grande efficacia anche a livello amatoriale. App che abbiano un impatto nazionale, che debbano tenere in considerazione tanti aspetti (i diritti delle persone, il pericolo della discriminazione, il trattamento di dati particolarmente delicati) in un quadro di incertezza, sono molto difficili e devono tenere conto di tanti dettagli. Le file fuori dai negozi ci sono, si vedono e, in qualche modo, si possono “contare” e trattare. Come si sta comportando il virus è ancora poco noto, e costruire un’app per gestire un qualcosa di poco noto, quando non si può procedere a tentoni, è molto più complesso. Senza contare che non siamo, in linea di principio, uno Stato che si contraddistingua per evoluzione tecnologica e buon rapporto con le tecnologie.

    La tecnologia di tracciamento in Cina e Corea è evidentemente molto invasiva a livello di privacy. A quanta privacy potremo o dovremo rinunciare per tutelare la salute? Che rischi corriamo?
    I momenti di crisi pongono, sempre, l’interprete e il cittadino comune davanti a questo dilemma: più sicurezza in cambio di meno privacy? Io sono convinto che sia proprio nei momenti di crisi che si debba combattere per cercare di trovare un equilibrio. Sono due valori, la privacy e la sicurezza, che vanno sempre correlati, contrapposti e valutati, cercando di raggiungere un equilibrio che garantisca sicurezza pur tutelando il più possibile la privacy dei cittadini. Il virus riguarda la salute delle persone, e i dati circa la salute delle persone sono sempre stati considerati i più delicati, i più sensibili. Un cattivo trattamento di questi dati può causare danni irreparabili alla persona: stigma sociale, discriminazione nella vita quotidiana e sul posto di lavoro, disagio.

    Al contempo, oggi abbiamo una tecnologia che è la più potente mai esistita in un’ottica di tracciamento e di controllo. Ecco, occorre trovare un equilibrio che consenta di sfruttare la potenza della tecnologia pur rispettando la privacy del soggetto. È la cosa più difficile, e per questo motivo è bene che di privacy e di protezione dei dati parli chi veramente conosce la materia e comprende i diritti, e i rischi, che ci sono in gioco. Anche la privacy, come la medicina, non è un argomento per tuttologi, e il liquidare la privacy come un hobby, o una citazione da “snob libertari”, è anche fare un torto a una grande tradizione che abbiamo in Italia di difensori della privacy e dei diritti, a partire dal compianto Stefano Rodotà.

    Abbiamo parlato troppo di numeri, come scrivevi in un tuo post? Che tipo di narrazione manca o è mancata secondo te?
    Sì, sono settimane che siamo bombardati da numeri che, molto spesso, non hanno senso in un contesto generale o di previsione perché soggetti a variabili troppo imprevedibili. Tutta la narrazione del virus si è basta su numeri: età, abitanti, metri di distanza, età media degli anziani deceduti, date e tempi di riapertura, contagi, numero di tamponi. Il problema è che i dati, come scrivevo, contano ma non raccontano. Danno un quadro spesso non veritiero e, al contempo, fanno dimenticare la sostanza del problema. I dati sono feticizzati, esposti, sbattuti in faccia ogni sera e commentati ma non rappresentano, molto spesso, la realtà di ciò che si sta vivendo. Nell’era dei big data, sembra che sia necessario contare tutto, tutti i dati devono essere contati e interpretati, ma questo modo di procedere lascia fuori l’empatia, l’irrazionale, la personalizzazione delle informazioni. Occorrerebbe iniziare, ad esempio, a raccontare le singole esigenze: delle famiglie, delle categorie professionali, delle aziende, che non tutte stanno vivendo allo stesso modo questo periodo. Un po’ meno di dati, scrivevo, e un po’ più attenzione agli occhi delle persone.

    Com’è andata la “tua” didattica online? Cosa ti manca di più di quella nelle aule?
    La mia didattica online sta andando molto bene. Tieni presente che eravamo, come Università di Milano, un Ateneo “classico”, molto tradizionale, e abbiamo dovuto in poco più di una settimana convertirci all’online con migliaia di corsi, sia pre-laurea sia post-laurea, e secondo me la mia Università ha agito nel modo più corretto: ha lasciato liberi i docenti, all’inizio, di scegliere gli strumenti più adatti (abbattendo quindi il tempo di apprendimento) ma, al contempo, ha elaborato in pochi giorni un piano centralizzato e ricco di istruzioni per i meno esperti su come andare immediatamente online e su quali piattaforme utilizzare. Quello che manca della didattica nelle aule, sono, appunto, le aule. Parlare per ore davanti al led di una webcam è, anche per noi, molto alienante. Ogni tanto domandiamo anche agli studenti di accendere la webcam per (ri)vederli in faccia e per dare alle lezioni un volto più umano. Per il resto, l’interazione avviene senza problemi, e anche il materiale didattico riusciamo a distribuirlo senza particolari difficoltà.

    Cosa abbiano capito in più del mondo, secondo te, a parte l’estrema vulnerabilità di tutta la catena?
    Non lo so, ci sto riflettendo anche io in questi giorni. Leggevo un’intervista a Francesco Guccini, di ieri o ieri l’altro, che, sul punto, era molto pessimista: era convinto che non avremmo capito nulla e che, finita l’epidemia, saremmo tornati esattamente come prima. Sicuramente l’idea di vulnerabilità (in generale) è al centro dei pensieri, ora. Almeno nei pensieri di chi si è scontrato direttamente con il virus. Forse in molti hanno capito quanto sia importante la dedizione al proprio lavoro, e mi riferisco sia ai medici e agli infermieri (che in molti contesti hanno tenuto comportamenti davvero eroici) sia a tutti coloro che hanno continuato nel silenzio a (dover) lavorare perché integrati nelle catene produttive dei servizi essenziali della società.

    Quando accadono tragedie enormi nella vita del singolo si dice spesso che il dolore è anche “un’opportunità”. Secondo te che tipo di opportunità avrà il mondo dopo tutto questo?
    L’opportunità sarà quella di ricostruire qualcosa, inteso in senso lato. Ricostruire un lavoro o un rapporto, ricostruire una passione o rimettere a fuoco le priorità, ma anche il cambiare completamente vita, il valutare meglio il passato per comprendere veramente che cosa fare nel futuro. Penso che ci renderemo conto che questo “fatto” è un qualcosa di enorme, uno spartiacque da una vita prima del virus a una dopo, o con, il virus. Quindi le opportunità le vedremo gradualmente, man mano che andremo avanti. Ma sicuramente ci saranno.

    Ti occupi da sempre di odio online. Secondo te questa situazione ha modificato l’odio, i destinatari dell’odio, gli odiatori? Dai leoni da tastiera ai leoni da balcone?
    Da un lato ho notato un calo sensibile dell’odio generalizzato, dovuto, ovviamente, a un calo della polarizzazione tra le persone e i gruppi. La pandemia ha reso, in un certo senso, tutti uguali e ha, per molti versi, attenuato le ostilità semplicemente perché si pensava a qualcosa di più importante ed emergenziale. Ciò ha reso più evidenti alcuni tipi di odio “estemporanei” e “specifici”, come quelli nei confronti dei runner, dei proprietari dei cani o dei privilegiati dei tamponi, ma è un odio molto più soft rispetto a quello cui eravamo abituati e che, ovviamente, è destinato a scomparire in fretta.

    Anche l’odio da “privilegiati da tampone” è stato molto feroce.
    Sì, ma penso sia normale. La diseguaglianza si sente molto di più, in questo periodo. Capita anche l’odio di “vicinato”, soprattutto sui gruppi Facebook di quartiere, ma mi sembrano fenomeni correlati al contesto e ben diversi a odio più radicato, soprattutto razziale, omofobico, religioso e contro le donne.
    I virologi sono stati intervistati giorno e notte su ogni media. Molti sostengono che ci sarà un ritorno “alla competenza”. Ci credi?
    Sì, secondo me è stato molto positivo il fatto di cercare di “qualificare” le fonti, anche perché il virus ha portato anche molte fake news. Non è, però, detto che i virologi dicano sempre cose giuste, come i medici o i professori universitari (mi ci metto anche io, ovviamente). Occorre sempre un grande spirito critico in chi ascolta, soprattutto se si parla di temi dove si possono veicolare facilmente notizie non veritiere e che sono molto complessi da comprendere. Ricordiamoci che c’è anche la “junk science”, la scienza spazzatura, e che molto spesso il lettore non è sempre in grado di comprendere il valore reale dello studioso che parla e se i dati veicolati siano corretti o meno. Io noto, nel contesto attuale, molta confusione, dovuta probabilmente al fatto che non ci sono ancora studi attendibili su molti aspetti del virus che interessano il cittadino comune.

    Si dice che ogni epidemia sia figlia del suo tempo e che questa sia figlia della globalizzazione. Che ne pensi?
    Mah, non ne sono così convinto. Penso che in alcuni casi la globalizzazione e l’uso degli strumenti di comunicazione abbiano, invece, portato a un uso delle tecnologie più utile anche per combattere l’epidemia e per diffondere informazione in tempi molto rapidi, al fine di garantire una reazione utile.
    Cosa ti manca di più della “vita di prima”?
    Mah, negli ultimi anni ero solito tenere conferenze, corsi o presentazioni in giro per l’Italia per almeno ottanta/cento giornate all’anno, e mi ritrovavo quindi su un treno o un aereo ogni due o tre giorni della settimana. Improvvisamente ho dovuto convertire la mia formazione “itinerante” in una formazione da salotto, ma girare l’Italia era anche l’occasione per vedere luoghi, incontrare gente e attivare un dialogo che, poi, rimane per sempre. Direi, quindi, il contatto con le persone. E questo del “contatto”, se ci pensi, non credo sia un problema marginale. Non sappiamo se potremo recuperare il contatto con gli altri. Gli abbracci, i baci, ma anche le semplici strette di mano che ormai facevano parte non solo della nostra cultura e della nostra terra ma anche del nostro modo di vivere.

    Il pensiero più rassicurante durante questa quarantena?
    Mi ha rassicurato molto il fatto che siamo riusciti a “lasciare a casa” tutti i nostri studenti prima dell’inizio delle lezioni in Università. Sono tutti rientrati nelle loro case, più o meno tranquilli, ma tendenzialmente al sicuro. Avevamo la consapevolezza che i luoghi di aggregazione e di assembramento, le aule piene di persone, potessero presentare un rischio di focolai altissimo.
    Il più spaventoso?
    Il pensiero più spaventoso per chi è oggi in Lombardia penso sia comune: quello di avere la necessità di andare in ospedale, anche solo per un banale incidente. Tutti abbiamo amici medici che ci narrano la situazione dei reparti, e il non poter usufruire dei servizi sanitari al meglio, per di più rischiando il contagio, è una delle preoccupazioni peggiori.

    Le fake news in questa fase hanno trovato strade creative, penso alle tante note vocali di sedicenti medici. O alle teorie complottiste. Un’epidemia è terreno fertile per la manipolazione della realtà?
    Sì, è uno dei migliori terreni. Le persone sono spaventate, quindi vulnerabili. Hanno poco tempo per verificare le fonti, sono poco lucide, tendono a credere a notizie che rispecchiano il loro stato d’animo e sono poco portate a scelte radicali e a seguire percorsi differenti da quelli che sono abituati ad ascoltare (perché il cambiare, in un momento di crisi, è poco rassicurante in sé).

    Ci sono state molte polemiche per il discorso di Giuseppe Conte alla nazione via Facebook, col famoso ritardo che molti hanno ritenuto “tattico”. Gallera, con una certa ingenuità ha parlato di “spunta blu” a una pagina Facebook della regione Lombardia assegnata da Facebook per meriti di informazione. Salvini è parso appannato. Come ti è parsa la comunicazione politica via social?
    Ho notato un’evoluzione. Già prima della pandemia i social network e gli smartphone erano i primi strumenti per la comunicazione politica in Italia anche se resisteva la “vecchia” televisione, visto anche il pubblico di anziani. Con la pandemia, i social network e Skype sono diventati (spesso necessariamente) i mezzi di comunicazione privilegiati. Molto spesso, però, è estremamente complesso distinguere tra un uso professionale e uno personale del mezzo, e i due aspetti si possono confondere. Io non vedo un problema di uso del mezzo, come se Facebook non possa essere un mezzo efficace e “istituzionale”. Di certo siamo in un periodo di overload informativo, per cui le persone selezionano molto quello che “passa” sui telefonini, e ricordo che oggi, per tante ore al giorno, i telefonini e i computer sono “occupati” da smart working e lezioni dei figli, quindi una comunicazione può risultare, oggi, molto meno efficace rispetto a quando la “via” telematica era più libera.

    Se dovessi scrivere la nuova puntata di Black Mirror, dopo tutto questo, a che trama penseresti?
    Penserei a una trama con una società o un Governo che utilizzi le app per il tracciamento antivirus per “ordinare” e catalogare le persone in categorie: i) sopravvissuti al virus, ii) con parenti morti o contagiati dal virus; iii) infetti ma asintomatici, iv) sani, v) persone con temperatura corporea oltre una soglia, e così via. Ciascuna persona, in base alla categoria “ virale”, potrebbe godere di una specifica “fetta di società” e di servizi a lei dedicata, oltre a un lavoro specifico, e si creerebbe così una catalogazione delle persone nella società a seconda del loro stato di salute, della capacità di resistenza al virus, dei loro dati sanitari e di altri fattori discrezionali. Ovviamente un attacco hacker, alla fine, metterebbe scompiglio in questa categorizzazione mescolando le carte (e le schede dei cittadini) e portando di nuovo il caos nella società…

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