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    Coronavirus, un paziente su quattro ricoverato nelle terapie intensive in Lombardia è morto

    Secondo un'analisi pubblicata da una rivista medica americana, il 26 per cento di persone ricoverate durante 28 giorni di emergenza da Covid-19 in Lombardia non ha superato la degenza

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 9 Apr. 2020 alle 09:35 Aggiornato il 9 Apr. 2020 alle 11:33

    Coronavirus, 26 per cento dei pazienti in terapia intensiva negli ospedali lombardi ha perso la vita

    Un paziente su quattro ricoverato nelle terapie intensive degli ospedali lombardi durante l’emergenza Coronavirus ha perso la vita. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista medica americana jumanetwork, a cui hanno partecipato i rappresentanti degli ospedali lombardi coinvolti nell’emergenza, Critical Illness in Patients With COVID-19, il quale mostra che il 26 per cento dei pazienti in terapia intensiva negli ospedali lombardi è deceduto. Una percentuale altissima che copre un periodo di 28 giorni, dal 20 febbraio al 18 marzo e riguarda in tutto 1591 pazienti ricoverati. Secondo l’analisi, l’82 per cento di questi era di sesso maschile, l’età media è di 63 anni, il 68 per cento aveva almeno una comorbilità e il 49 per cento era iperteso.

    Lo studio mostra anche come in quei 28 giorni la sanità della Regione è stata sottoposta a uno stress e una richiesta che avrebbe superato la capacità anche del miglior sistema sanitario: quasi 1600 pazienti sono stati ammessi in 72 terapie intensive con una media di 22 pazienti per terapia intensiva, con una durata media di quattro giorni. Una delle criticità della malattia, infatti, è proprio quella di costringere i malati troppo a lungo all’interno degli ospedali, perché la ripresa, quando c’è, è molto lenta, e quando i tassi di contagio sono molto alti, come avvenuto in Lombardia, i pazienti si accumulano e non c’è “ricambio” all’interno delle strutture.

    Il sistema sanitario italiano non era per niente preparate ad affrontare un’emergenza di questa portata, anche perché la conoscenza di malattie polmonari e pandemie, in Italia e in Europa, è ridotta rispetto ai Paesi asiatici, che si sono mostrati più preparati. Come spiega Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, in un’intervista a noi di TPI, i paesi dell’estremo oriente erano molto più abituati rispetto a quelli occidentali a fronteggiare le epidemie da virus respiratori. “Hanno dei meccanismi di reazione molto più rapidi: o sono regimi che riescono a imporre misure particolarmente restrittive, anche per le libertà individuali, oppure hanno grande fiducia e sono molto avvezzi alla tecnologia e all’innovazione” ha dichiarato Rezza.

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