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    Neofascisti, dittatori e spie: Patricia Mayorga spiega a TPI l’alleanza tra Pinochet, Concutelli e Delle Chiaie

    Stefano Delle Chiaie in un immagine di repertorio. Credit: Mirco Toniolo/Errebi / AGF

    A cinquant'anni dai fatti l’autrice del libro-inchiesta “Condor Nero” racconta a TPI i retroscena dell’attentato ai coniugi Leighton commesso a Roma nel 1975, che rivelano i legami tra il regime cileno e l’eversione nera di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 16 Set. 2025 alle 13:18

    Era la sera del 6 ottobre del 1975 quando i coniugi Bernardo Leighton e Anita Fresno si incamminarono per tornare a casa a Roma, all’indirizzo di Via Aurelia 145. Lui era un democristiano e parlamentare cileno, oppositore del regime militare di Augusto Pinochet, in esilio in Italia. Eppure non avevano scorta, né adottavano particolari misure di sicurezza. Allora non immaginavano che, pur non uccidendoli, due colpi di pistola avrebbero messo fine alla carriera politica di lui e reso per sempre invalida lei. Ma se i mandanti se ne stavano al sicuro a Santiago del Cile, gli esecutori erano due nomi noti dell’eversione nera degli anni Settanta in Italia, Pierluigi Concutelli e Stefano Delle Chiaie. Dalla vicenda – ricostruita nel libro-inchiesta “Condor nero” della giornalista cilena Patricia Loreto Mayorga, storica corrispondente del quotidiano El Mercurio a Roma, ristampato da Paesi Edizioni in occasione del cinquantesimo anniversario dell’attentato – emergono infatti i legami tra il regime di Pinochet e le formazioni neofasciste romane. «Concutelli ha sparato i due colpi di pistola e Delle Chiaie guidava l’auto usata per l’attentato», spiega Mayorga nel suo libro, che ricostruisce il ruolo dell’Internazionale Fascista che insanguinò gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. «È un viaggio nel mondo dell’orrore, che non riusciamo a capire perché viviamo in un mondo diverso e non diamo il giusto valore alla vita democratica», disse all’epoca del processo contro Michael Townley, il mandante intermedio dell’attentato, l’allora pubblico ministero della procura di Roma Giovanni Salvi, già procuratore generale presso la Suprema Corte di Cassazione. Mayorga, invece, spiega a TPI il ruolo e l’importanza dell’alleanza tra Pinochet e l’eversione nera in Italia: «Tra quelli compromessi con il regime, il gruppo di neofascisti italiani è stato l’unico a vivere in Cile e a essere addirittura ospitato in una casa messa a disposizione dallo Stato».
    Quali documenti o testimonianze l’hanno maggiormente colpita?
    «La testimonianza di Anita Fresno, la vedova di Bernardo Leighton che non aveva mai concesso un’intervista fino a quando ci incontrammo nel 2001, qualche anno dopo la morte del marito».
    Perché?
    «Anche se erano passati oltre 25 anni dall’attentato, soffriva ancora molto perché il proiettile che l’aveva colpita alla schiena l’aveva lasciata quasi paralizzata. Eppure un pomeriggio, subito dopo la messa, mi ricevé a casa sua a Santiago (del Cile, ndr). Era una persona molto cattolica che si recava in chiesa in sedia a rotelle. Mi colpì, oltre al dolore fisico, la disperazione che emergeva dal suo racconto di quella sera del 6 ottobre 1975 a Roma: dopo lo sparo era rimasta cosciente, aveva visto portare via il marito in un’altra ambulanza ma poi, pur essendo ricoverati nella stessa struttura, erano entrambi rimasti molto tempo senza avere notizie l’una dell’altro».
    L’attentato ai coniugi Leighton non fu un episodio isolato.
    «Grazie ai documenti desecretati della Cia possiamo identificare tre attentati “eccellenti” commessi tra il 1974 e il 1976, ordinati dal regime. Il primo prese di mira il generale Carlos Prats, ex comandante in capo dell’esercito cileno, predecessore di Pinochet e poi, dal 1972 al 1973, ministro della Difesa e vicepresidente della Repubblica durante il governo Allende, che fu ucciso insieme alla moglie Sofia Cuthbert a Buenos Aires il 30 settembre 1974. Il secondo attentato avvenne appunto a Roma contro Bernardo Leighton e la moglie Anita Fresno il 6 ottobre del 1975. Mentre il terzo colpì l’ex ministro degli Esteri cileno Orlando Letelier, morto insieme alla sua assistente Ronnie Moffit nel cuore di Washington D.C. nel settembre del 1976».
    Quale fu il filo conduttore?
    «I documenti desecretati della Cia parlano delle vittime come di possibili “catalizzatori” dell’opposizione cilena in esilio».

    Come scrive nel suo libro, questa storia si svolse in almeno sei Paesi di due continenti: quale ruolo giocò l’Italia?
    «Se la Repubblica democratica tedesca (la Germania Est, ndr) ospitava l’ufficio politico di Unidad Popular, il blocco dei partiti di sinistra che appoggiò Salvador Allende nella vittoria alle elezioni del 1970, a Roma esisteva invece una realtà particolare: l’ufficio Cile Democratico, che riuniva tutte le forze di opposizione, dai centristi fino alla sinistra rivoluzionaria del Mir (in spagnolo Movimiento de Izquierda Revolucionaria, ndr)».
    Chi fu coinvolto nell’attentato di Roma?
    «Un cittadino cileno-statunitense di nome Michael Townley, agente della Dirección de Inteligencia Nacional (DINA), la polizia segreta del regime di Pinochet, che è stato coinvolto in tutti e tre gli attentati “eccellenti” commessi tra il 1974 e il 1976. A Roma è stato il mandante del tentato omicidio di Leighton con il sostegno di Ordine Nuovo, nella persona di Pierluigi Concutelli, e di Avanguardia Nazionale, nella persona di Stefano Delle Chiaie».
    Qual era lo scopo di questa collaborazione?
    «Come mi confermò Delle Chiaie in un’intervista, il regime cercava appoggio all’estero e voleva creare un’agenzia di propaganda per contrastare la narrazione internazionale sul Cile».
    Non erano figure marginali per il regime.
    «Uno degli aspetti che più mi colpì durante le mie ricerche è il fatto che, tra quelli compromessi con il regime, il gruppo di neofascisti italiani è stato l’unico a vivere in Cile e a essere addirittura ospitato in una casa messa a disposizione dallo Stato».

    Addirittura Lei racconta di un incontro avvenuto tra Pinochet, Valerio Junio Borghese e Stefano Delle Chiaie.
    «Ci sono due versioni della storia, una del capo della polizia segreta del regime Manuel Contreras e una raccontatami da Delle Chiaie e confermata da fonti della famiglia Borghese».
    Ce le racconti entrambe.
    «Contreras fa risalire l’incontro al novembre del 1975 e lo colloca a Madrid, quando Pinochet fu uno dei pochi capi di Stato a recarsi in Spagna per partecipare ai funerali di Francisco Franco. Per il capo della Dina il generale cadde allora in una sorta di trappola. A Pinochet, secondo Contreras, si presentò un italiano che diceva di essere un conte. Poi venne fuori che quella persona era Delle Chiaie, che all’inizio non volle parlare dell’incontro ma poi smentì questa versione».
    Come andò?
    «Quando contattai Delle Chiaie mi disse che non voleva parlare di questi fatti perché erano parte di una storia che non gli apparteneva. Fu solo quando inviai al suo avvocato un’intervista di Contreras al quotidiano (cileno, ndr) La Segunda, in cui il suo vecchio amico lo accusava di aver sparato a Bernardo Leighton, che si convinse a concedermi un’intervista e a raccontarmi la sua versione».
    Ce la racconti.
    «Prima di tutto smentì le dichiarazioni di Contreras: se mi fossi presentato come un conte, mi disse, i miei camerati avrebbero riso per sempre di me. Poi puntualizzò che aveva già conosciuto Pinochet nel 1974, quando insieme a Borghese si era recato in Cile a congratularsi con il generale, una storia che mi fu confermata in seguito da fonti della famiglia del principe. Confermò anche l’incontro avvenuto in Spagna dove, secondo Delle Chiaie, Pinochet gli aveva fatto le condoglianze per la morte di Borghese».
    Gli incontri furono quindi due?
    «Sì e da allora è nato un rapporto sempre più stretto tra i neofascisti italiani e il Cile».

    Quanto è stato importante in questo senso l’attentato ai Leighton a Roma?
    «Basta mettere in fila le date: il primo incontro tra Delle Chiaie e Pinochet avviene nel 1974, il tentato omicidio di via Aurelia 145 è dell’ottobre del 1975, Franco è morto nel novembre di quello stesso anno, quando avviene il secondo incontro tra i due, mentre tra il ’76 e il ’77 i neofascisti italiani vivono in Cile».
    Che rapporto c’era con l’Ufficio Affari Riservati del nostro ministero dell’Interno?
    «Non conosco il ruolo dell’intelligence italiana o di altri Paesi europei in questa storia ma – e non credo sia una scoperta – Delle Chiaie era legato ai servizi, tant’è vero che è morto da uomo libero (nel 2016, ndr)».
    Entrava e usciva liberamente dall’Italia.
    «Townley raccontò di averlo visto presentare un passaporto cileno alla polizia di confine francese. Quando gli chiesi conto di queste dichiarazioni, Delle Chiaie sviò il discorso affermando che allora “si poteva comprare ogni genere di documento al mercato nero”. Ma non smentì».
    Come finirono i neofascisti italiani in Cile dalla Spagna?
    «Durante la transizione spagnola successiva alla morte di Franco i neofascisti italiani cominciarono a innervosirsi. Come si dice in Cile, “se le mueve el piso”. Non si sentivano più al sicuro».

    Il titolo del libro si riferisce alla “Operazione Condor”, un accordo promosso negli anni Settanta dagli Usa tra le dittature militari del Cono Sud dell’America in funzione anticomunista. Quale fu il ruolo di Washington in questa Internazionale Nera?
    «Per quanto riguarda il Cile, gli Stati Uniti cominciarono a tramare il golpe dal giorno dopo l’elezione di Allende. Basta ricordare gli scioperi dei camionisti del 1972 che nel giro di un anno avrebbero portato al colpo di stato militare. La protesta paralizzò il Paese, provocando penuria di cibo e generi di prima necessità. Personalmente ho saputo da uno degli aderenti che, malgrado lo sciopero, queste persone ricevevano tutti i mesi uno stipendio. I soldi arrivavano dagli Usa».
    Servizi segreti del regime di Pinochet, oppositori cubani anticastristi, ex nazisti e ustascia croati, neofascisti: Lei ricostruisce l’Internazionale Fascista degli anni Sessanta e Settanta, una rete globale di movimenti extraparlamentari, partiti, logge massoniche, intelligence e apparati militari. Quale eredità ha lasciato?
    «Non potrei giurare che queste organizzazioni abbiano lasciato una propria eredità nei Paesi coinvolti. Parliamo, in fondo, degli anni Settanta dove la maggior parte dell’America Latina era governata da regimi militari e di ultra-destra».
    Italia, Germania, Cile e altri Paesi con una storia simile di dittature nazifasciste hanno davvero fatto i conti con il passato?
    «Posso dire che il mio Paese, il Cile, non ha ancora fatto al 100 per cento i conti con il passato. Di recente è uscito un libro dell’avvocato britannico Philippe Sands, “38 Londres Street”, l’indirizzo di una casa delle torture del regime. Qui l’ex legale di Amnesty International racconta la storia di un ex nazista, intimo amico di Pinochet, che aveva conosciuto il generale quando era stato attaché militare all’ambasciata cilena in Ecuador, che aveva una fabbrica di farina di pesce, un alimento allora usato come mangime per animali. In seguito si è scoperto che i corpi di molti desaparecidos sono stati triturati e sono finiti proprio nella farina di pesce. Stanno emergendo tante storie: questo vuol dire che dobbiamo ancora fare appieno i conti con il passato».
    Ma esistono delle analogie con gli scenari odierni? Quali insegnamenti dovremmo trarre oggi da quelle vicende e cosa pensa del ritorno di linguaggi e simboli dell’estrema destra in Europa, Usa e America Latina?
    «Il contesto è molto diverso rispetto al passato che abbiamo raccontato ma il consenso raggiunto dell’ultra-destra tra le fasce popolari dovrebbe preoccupare. La sinistra, in particolare, ha perso la capacità di penetrazione sul territorio. Non riesce più a convincere le persone, attraverso l’azione politica e non solo a parole. Tant’è vero che allora le giovani generazioni erano più impegnate rispetto ad oggi. L’ambiente però è molto più complicato: allora non esistevano i social e, malgrado le fake news siano sempre esistite, grazie alle nuove tecnologie, oggi sono molto più pervasive e addirittura promosse a livello istituzionale. Viviamo tempi bui».

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