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    Il chirurgo che salva le mani torturate dei migranti: “Abbiamo una Auschwitz a 120 miglia dall’Italia”

    Massimo Del Bene. Credit: ANSA / FABRIZIO RADAELLI

    Massimo Del Bene è un medico di fama mondiale che da anni ricostruisce la mani dei migranti devastate dalle torture dei lager libici

    Di Lorenzo Tosa
    Pubblicato il 29 Ago. 2019 alle 15:29 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 02:21

    Il chirurgo che salva le mani torturate dei migranti: “Abbiamo una Auschwitz a 120 miglia dall’Italia”

    Il chirurgo che salva le mani torturate dei migranti – “Abbiamo una Auschwitz a 120 miglia dalla costa italiana. E rimandarli laggiù significa riportarli a tutti gli effetti in un campo di concentramento. È il Medioevo che entra nella nostra civiltà”. Lui si chiama Massimo Del Bene (nomen omen) ed è un medico di fama mondiale, un luminare della chirurgia della mano, il primo medico a livello mondiale ad aver eseguito un trapianto duplice di mano, nel 2010. Uno di quelli che il mondo ci invidia.

    Se solo lo volesse, Massimo oggi potrebbe essere ovunque, a dirigere centri di ricerca internazionali o i reparti di chirurgia dei più prestigiosi ospedali privati del Pianeta. Invece se ne sta a Monza, all’ospedale San Gerardo, un piccolo “centro dei miracoli” dove da anni ricostruisce la mani dei migranti devastate dalle torture dei lager libici, gratuitamente, con i fondi della Caritas per coprire le spese vive, senza chiedere nulla in cambio, a parte l’orgoglio e il diritto di restare umano.

    In anni di attività, ha visto passare ai raggi X mani maciullate a colpi di martello, con dieci dita fratturate su dieci e gonfie fin quasi a esplodere. Ha visto mani che “non sono più utili nemmeno per vestirsi”, lesioni talmente vecchie e profonde che non sono più operabili, nervi lacerati, mani con ustioni da benzina che “non si aprono più”.

    “Spesso i danni sono così inveterati da essere irrecuperabili, e allora – racconta – mi devo inventare qualcosa per ridare sensibilità alla mano”.

    Massimo non lo sa, ma è grazie a quel “qualcosa” se siamo ancora qui, se siamo ancora vivi.

    Ognuno di noi, nel suo piccolo, ha un proprio “qualcosa” da fare, da offrire, da mettere in gioco. Forse non salverà la mano o la vita a una persona, ma salverà se stesso. E, insieme, un pezzo di tutti noi.

    Ogni giorno Massimo compie un gesto considerato rivoluzionario, sovversivo: mette insieme contemporaneamente le due cose che oggi in Italia e nel mondo sono state ufficialmente dichiarate fuorilegge: la Scienza e l’Umanità. E lo fa nel modo più naturale e spontaneo. In silenzio. Lavorando.

    “Noi non raccontiamo palle. Noi siamo tecnici” tiene a precisare alla giornalista Rai che lo ha intervistato, quasi prevedesse le critiche, perché sono le stesse che ha sentito ripetere all’infinito, sempre identiche.

    Massimo, per intenderci, è la persona più lontana che vi possa venire in mente dalla parola “buonista”. Ne ha viste troppe, dentro e fuori una sala operatoria, per esserlo, per aderire a un’etichetta così ovvia e banale.

    Massimo è un “Giusto”, nel senso in cui lo concepiva Walter Benjamin. “Il portavoce delle creature e, al tempo stesso, la sua più alta incarnazione”. In un paese normale, quelli come Massimo aprirebbero i telegiornali, li porteremmo in giro per l’Europa per raccontare chi siamo, cos’è l’Italia, quello di cui siamo capaci. Qui da noi sono storie di colore, servizi riempi-tg, rumore di fondo che si frange nel nostro quotidiano senza lasciare traccia, tra un caso di cronaca e una crisi di governo.

    Se c’è una cosa che ho imparato, è che quelli che cambiano il mondo non lo dicono mai, non lo annunciano, non fanno proclami. Provano solo ad aggiustarlo, nel modo in cui sono capaci. Inventano “qualcosa” per renderlo un poco migliore di come lo hanno trovato. Sembra poco, è tutto quello che oggi ci manca.

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