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    Castelli di sabbia. L’assurda condanna all’ergastolo di Chico Forti e una giustizia in ritardo di 20 anni

    Chico Forti nell'illustrazione di Emanuele Fucecchi

    Chico Forti potrà tornare in Italia grazie allo sforzo diplomatico del Governo e a chi, dopo 20 anni, ha riportato alla luce la storia di una condanna assurda, esito di un processo sommario e con una prova, considerata decisiva, su cui è stato edificato un fragilissimo teorema accusatorio: dei granelli di sabbia comparsi dal nulla

    Di Luca Serafini
    Pubblicato il 24 Dic. 2020 alle 15:57 Aggiornato il 24 Dic. 2020 alle 16:06

    Ci sono voluti 20 anni affinché la politica riuscisse finalmente a fare le veci della magistratura, restituendo a Chico Forti se non la libertà, almeno un brandello di quella giustizia che gli era stata negata nelle aule di tribunale statunitensi. La giustizia del processo e nel processo, nel modo in cui questo si svolge, in cui vengono raccolte le prove, l’aderenza tra queste e le sentenze. Quando di quel tipo di giustizia viene fatto scempio, alla politica resta sempre la possibilità di rimediare, come avvenuto in questo caso, sebbene con svariati anni di ritardo.

    È un potere tanto pericoloso quanto potenzialmente salvifico, quello che può esprimersi nel primato del politico sul giuridico. Il filosofo e giurista Carl Schmitt lo definiva una forma di “teologia politica”: così i governanti possono, ad esempio, decidere di derogare ai consueti procedimenti di approvazione delle leggi quando ci si trovi in uno stato di emergenza (di “eccezione”, lo chiamava Schmitt), quale una pandemia.

    Così Donald Trump può decidere di concedere la grazia a suoi amici e alleati poco prima di decadere da presidente, approfittando in maniera personalistica di quella facoltà a lui concessa. Così Matteo Salvini può ritenere di porsi al di sopra del diritto internazionale e di non far sbarcare dei migranti per “superiori interessi nazionali”.

    Ma se il varco teologico del potere politico apre la strada, in certi casi, a palesi abusi, resta appunto anche il mezzo estremo per sanare almeno parzialmente altri tipi di prevaricazioni, quelle perpetrate dai giudici su imputati e condannati.

    Chico Forti tornerà in Italia avvalendosi dei diritti formalmente riconosciuti dalla Convenzione di Strasburgo, ma che sarebbero rimasti lettera morta senza la volontà del Governo di battersi per affermarli e senza la conseguente opera di convincimento nei confronti degli Usa, conclusasi con la firma del governatore della Florida (che poteva, legittimamente, decidere di non apporla).

    Forti, imprenditore trentino trasferitosi negli Usa, nel 2000 venne condannato per l’omicidio di Dale Pike, il figlio di Anthony Pike, patron di un hotel di Ibiza che lo stesso Forti stava per acquistare. La sentenza venne pronunciata in seguito a indagini abborracciate, sulla base di prove fragilissime se non inesistenti, con un processo frettoloso e sommario.

    Forti, secondo l’ipotesi accusatoria, aveva ucciso Dale Pike perché quest’ultimo intendeva opporsi alla vendita dell’hotel del padre, luogo  considerato in quegli anni leggendario nella movida delle Baleari, palcoscenico del video della canzone “Club Tropicana” (in cui appare come comparsa proprio Anthony Pike) degli “Wham!” di George Michael. Dale Pike, secondo questa versione dei fatti, aveva fiutato la truffa che Forti voleva mettere in atto ai danni del padre, acquistando l’hotel a prezzo ribassato. Da lì il viaggio a Miami per bloccare tutto, gli screzi e l’omicidio commesso da Forti.

    Peccato che lo stesso Forti venne poi assolto (prima della condanna per omicidio) da tutte le accuse legate a quella presunta truffa. Peccato che tutte le evidenze in fase di indagini e dibattimento smentissero categoricamente il supposto malanimo della vittima nei confronti dell’imprenditore trentino, inclusi messaggi inviati da Pike alla sua compagna nell’imminenza del viaggio e nei quali si dichiarava “entusiasta” di recarsi in Florida. Si trattava, insomma, di un movente costruito sull’acqua.

    Chico Forti, il 15 febbraio del 1998, andò a prendere Dale Pike all’aeroporto di Miami. La mattina dopo, Pike fu ritrovato cadavere su una spiaggia. Nessuna traccia di Chico Forti fu mai rinvenuta sul luogo del delitto: niente impronte, niente Dna. La macchina di Chico Forti venne ispezionata per settimane, smontata e rimontata senza che ne venisse fuori alcun elemento utile alle indagini.

    Dopo circa due mesi, il giorno prima della scadenza dei termini di custodia cautelare, con le indagini che brancolavano nel buio, comparvero come per miracolo dei granelli di sabbia nel gancio di traino dell’autovettura. Granelli, peraltro, compatibili non solo con la spiaggia dell’omicidio (Sewer Beach), ma con una qualsiasi altra spiaggia della zona, trattandosi infatti di sabbia di riporto. Ma quei granelli rappresentarono, di fatto, l’unica prova considerata consistente a carico dell’imputato.

    Castelli di sabbia. Quelli costruiti dagli inquirenti, sufficienti però per mandare una persona all’ergastolo in processi-fantoccio. Altre prove scriminanti sparirono con gli stessi effetti scenici con cui comparve la sabbia. Tra le tante, si può citare il registro delle chiamate di una cabina telefonica di un negozio di Miami in cui Pike si era fermato, assieme a Forti, sulla strada che dall’aeroporto li conduceva in città. Chico Forti disse agli inquirenti che Pike, da quella cabina, aveva chiamato qualcuno, forse la persona a cui poi lo stesso Forti lo lasciò in consegna nei pressi di Sewer Beach.

    Vennero analizzati i tabulati e risultò che da quella cabina telefonica non era partita alcuna chiamata. In tribunale, la circostanza venne presa come un’evidenza delle menzogne di Forti. Peccato che i tabulati presi in esame, per un errore investigativo, erano quelli del 15 febbraio 1999, un anno esatto dopo rispetto alla data dell’omicidio. Quelli utili alle indagini, manco a dirlo, nel frattempo erano spariti nel nulla.

    La sequela di approssimazioni, palesi abbagli, forzature necessarie a far tornare un teorema, è purtroppo troppo lunga per poter essere ricostruita qui per intero. E non ci sarebbe nemmeno bisogno di parlare dell’intreccio tra il caso Forti e l’omicidio di Gianni Versace, perché le evidenze sulla fragilità dell’impianto accusatorio sono tali da non rendere necessario il ricorso a ipotetiche macchinazioni.

    Per la cronaca, Forti realizzò un documentario (“Il sorriso della Medusa”) in cui metteva pesantemente in discussione l’operato della polizia di Miami nelle indagini sull’omicidio di Versace, suggerendo come il cadavere di Andrew Cunanan (l’assassino dello stilista italiano), ritrovato in una houseboat, fosse stato trasportato lì proprio dalla polizia, forse per simulare un suicidio. Impossibile stabilire se la successiva vicenda processuale di Forti sia inquadrabile come una forma di ritorsione ai suoi danni da parte del dipartimento di polizia di Miami.

    E poco importa, come detto, in considerazione delle evidenze processuali, che alla fine hanno spinto la stessa famiglia Pike a chiedere il rilascio di Chico. Lo ha fatto il fratello di Dale Pike, dopo che qualche anno fa lo stesso Anthony Pike (poi deceduto), padre della vittima, aveva ammesso di essersi convinto col tempo dell’innocenza di Forti.

    Va reso merito alle Iene per aver ridestato la giusta attenzione sul caso dopo anni di parziale oblio. L’eco mediatica ha portato questa vicenda all’attenzione di tanti che non la conoscevano, generando un movimento d’opinione certamente importante, se non decisivo, per smuovere il Governo italiano e convincerlo a intraprendere una decisa azione diplomatica. I servizi della trasmissione di Italia 1 hanno anche consentito a tutti di apprezzare la dignità e la forza morale con cui Forti ha affrontato 21 anni di reclusione e lo sbianchettamento della sua esistenza.

    Nelle aule di tribunale non esiste la verità storica, ma quella processuale, per il cui accertamento vanno seguite procedure e rispettati diritti, in primo luogo quelli dell’imputato. Chiunque venga giudicato sulla base di un processo sommario è vittima di un’intollerabile ingiustizia, indipendentemente dallo svolgimento dei fatti di cui è chiamato a rispondere.

    Il ritorno di Chico Forti in Italia, dove per ora continuerà a scontare la sua pena, deve quindi rappresentare un primo passo, di sicuro non l’ultimo, per sgretolare definitivamente quei castelli di sabbia che gli hanno stravolto la vita.

    Leggi anche: 1. “Chico Forti tornerà in Italia”: l’annuncio di Di Maio / 2. Chico Forti, chi è l’imprenditore condannato all’ergastolo negli Usa per omicidio / 3. La storia dell’assassinio di Gianni Versace, un caso risolto troppo in fretta

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