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Achille Costacurta: “Non uso sostanze da un anno e mezzo, ma il percorso finisce quando si muore”

Credit: AGF

Il figlio di Martina Colombari e Alessandro Costacurta: "In prima liceo fumavo hashish tutti i giorni. Sono rinato grazie agli psichiatri incontrati in Svizzera. Fumo ancora sigarette ma nella vita non bisogna mai dipendere da qualcosa o qualcuno"

Di Marco Nepi
Pubblicato il 4 Dic. 2025 alle 12:44

“Ho 21 anni ma è come se avessi vissuto tre vite: non ricordo più quante volte sono finito in comunità, quanti tentativi di scappare. Non mi rendevo conto che quando cerchi di fuggire poi gli infermieri ti prendono sempre. Ma è il passato e per me ora è chiuso come un ricordo in una scatoletta. Ciò che è successo non si può più cambiare. Ciò che abbiamo davanti dipende da noi”. Lo dice Achille Costacurta, figlio di Martina Colombari e Alessandro Costacurta, in una lunga intervista rilasciata a Monica Colombo e Monica Scozzafava sul Corriere della Sera.

Il ragazzo, 21 anni, ha avuto un’adolescenza turbolenta a causa dell’abuso di sostanze stupefacenti e psicofarmaci, con diversi ricoveri in comunità di recupero e ben sette Tso. “Al primo anno di liceo fumavo hashish tutti i giorni”, racconta.

Oggi però le dipendenze non fanno più parte della sua vita. “Non faccio più uso di sostanze da quando ho preso consapevolezza della necessità di iniziare un percorso per guardare avanti”, spiega. “La mia rinascita risale a maggio del 2024: è avvenuta nella clinica Santa Croce, in Svizzera, dove ho incontrato medici che mi hanno aperto gli occhi su tante cose. Psichiatri che definirei ‘giganti’. Hanno conquistato la mia fiducia e hanno diagnosticato il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, l’Adhd di cui soffro. In Svizzera ho visto la luce”.

Già da bambino, racconta, “facevo fatica a stare seduto, mi annoiavo, attiravo l’attenzione”. “Ricordo una volta in autostrada con papà, ho iniziato a giocare con le macchinine sul cruscotto dell’auto. Gli chiedevo di correre, di non rispettare precedenze e semafori. Poi mi sono aggrappato al finestrino, urlando. Lui è stato costretto a fermarsi. Sono salito in piedi sul cofano”.

Il momento più basso della sua difficile adolescenza è stato quando, durante il suo ricovero in una comunità di recupero a Parma, ha tentato il suicidio: “Ho preso sette boccette di metadone, non so come non sia morto”, ricorda. “Volevo farla finita, era un gesto disperato: l’unico modo per far capire che volevo uscire dalla comunità a Parma. Di questo mi pento”.

Di tutto il resto, però, non si pente: “Se non avessi commesso quegli errori – riflette – non avrei capito tante cose, anzi per certi versi penso ‘Meno male che mi è successo tutto questo a 20 anni e non a 50 quando avrò moglie e figli’. Vale anche per la mia famiglia: se fossi stato il principino della situazione, i miei genitori non sarebbero oggi così forti nel fronteggiare situazioni anche spiacevoli che la vita a tutti riserva”.

Costacurta riconosce che crescere all’ombra di due genitori famosi non è stato facile: “Da piccolo poteva essere stimolante, col tempo è diventato pesante”, osserva. “Ero un ragazzino con tanta gente attorno, molti ragazzi, e lo capisci dopo, si avvicinavano perché ero nato in quel contesto. Oggi, mi rendo conto che quel mondo non era normale. E meno male che non ho fatto il calciatore altrimenti il paragone sarebbe stato ancora più schiacciante”.

Nell’intervista il ragazzo dedica un pensiero ad alcune persone che ha incontrato durante gli anni in comunità, persone che però non ce l’hanno fatta. Come “Jonis, 55 anni, uomo di famiglia benestante, che però aveva scelto di vivere da barbone e aveva fatto anche rapine in Germania, era con me a Parma. Mi ha insegnato le regole. Ho saputo che il giorno prima di uscire è morto: abuso di sostanze alla sua festa di compleanno. Ma anche Tatiana, la fidanzata di un mio amico in Svizzera, non c’è più. Aveva ricominciato col crack. Io che in passato ho assunto dosi cento volte superiori sono vivo”.

Oggi, dice Costacurta, “fumo ancora sigarette e dovrò smettere prima o poi. Il percorso finisce quando finisce il tempo, quando muori”. La lezione appresa è che “nella vita non bisogna mai dipendere da qualcosa o qualcuno”.

Quanto ai suoi progetti di vita, il giovane racconta di essere iscritto all’ultimo anno di liceo per la maturità, “poi – dice – sogno di aprire un centro per ragazzi disabili”. Dove vivrebbe? “In Australia, lavorare lì quattro cinque mesi all’anno nei campi e frequentare l’università. Ti pagano sa? Cinquemila euro al mese”.
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