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La democrazia logora chi non la ama

Il (malinteso) senso di Erdoğan per il referendum

Di Cristoforo Spinella
Pubblicato il 15 Giu. 2013 alle 18:24

Il giorno della svolta è stato il 12 settembre 2010. Più delle tre elezioni politiche vinte finora, con una crescita progressiva che l’ha portato sino a sfiorare due anni fa il 50 per cento dei consensi, il trionfo simbolico del premier turco Recep Tayyip Erdoğan e del suo partito Akp (Giustizia e Sviluppo) è inscritto in quella data.

Gli emendamenti costituzionali alla Carta figlia del colpo di stato militare del 1980 vennero approvati da quasi il 58 per cento dei turchi e spazzarono via l’immagine (e buona parte della sostanza) di impunità dei militari di Ankara, rendendoli imputabili davanti ai tribunali civili e rimuovendo l’immunità per i generali golpisti.

Quel referendum sulla costituzione – previsto in Turchia in assenza di una maggioranza qualificata dei 2/3 in parlamento – divenne da subito un referendum su Erdoğan. Che dopo una dura campagna lo vinse, non tradito dal suo elettorato anatolico e orientale. Né da quello istanbuliota.

Ora che le cose si mettono male, e la protesta nata al parco Gezi e diventata rivolta nel Paese non arretra, resistendo alle pressioni dei cannoni ad acqua e della delegittimazione propagandistica del governo, spunta l’ipotesi di un referendum. Solo sul destino del parco, per ora. E solo nelle dichiarazioni televisive, tante volte smentite dai fatti nel recente passato.

Eppure, sarebbe certo un grosso passo avanti: in parte, è quello che chiedono i manifestanti; e quello che Erdoğan non voleva. Sentitelo, una decina di giorni fa: “Per farlo non devo chiedere il permesso dell’opposizione o dei vandali. Abbiamo già quello della gente che ha votato per noi”.

Ma perché solo adesso? Da dove nasce tutta questa paura per l’espressione della volontà popolare in chi nell’ultimo decennio l’ha saputa indirizzare a suo piacimento, traghettandola verso lidi inimmaginabili solo qualche tempo prima? Sull’asfaltatura di Gezi e lo sconvolgimento di piazza Taksim, come sulla distruzione di interi quartieri storici – da Sulukule a Tarlabaşı – e la camentificazione selvaggia dello spazio urbano, i cittadini di Istanbul un referendum lo chiedono da anni. Anzi: lo implorano. Per decidere del futuro della città, e in definitiva del loro.

Senza l’ombra di una decisione collettiva – e con ben poca cura anche delle controversie giudiziarie evocate ora per il parco Gezi –, poche settimane fa lo storico cinema Emek, il più antico di Istanbul, è stato demolito. Per farne – ça va sans dire – un nuovo spazio commerciale (il più vicino, del resto, dista almeno una decina di metri).

Per ottenere un referendum su Gezi ci sono voluti (almeno) quattro morti, migliaia di feriti e le barricate nel cuore della città. In fondo, se Erdoğan si dice certo di vincerlo, perché? Chi è che ha davvero paura della democrazia in Turchia?

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