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    Una visione altruista e non più egoista della vita: solo così ci salveremo dall’estinzione (di G. Gambino)

    Di Giulio Gambino
    Pubblicato il 9 Dic. 2022 alle 08:00 Aggiornato il 15 Dic. 2022 alle 11:06

    C’è una verità nascosta che tutti conoscono ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Negli ultimi anni tutte le nazioni della terra sono state colpite da nubifragi, inondazioni, siccità, incendi, uragani. Oggi vediamo messi a repentaglio gli ecosistemi in cui viviamo, le nostre proprietà, le nostre attività. Assistiamo alla perdita di vite umane nelle nostre famiglie e fra i nostri simili.

    E di fronte a una simile e costante sciagura, la verità nascosta alla quale ormai abbiamo deciso di rassegnarci è questa: non sono i fossili che stanno determinando tutto ciò ma è il modo in cui viviamo su questa terra che ci sta portando all’estinzione.

    Sono, se preferite, le nostre stesse idee. Il nostro stile di vita. Il modo in cui concepiamo il nostro rapporto con la natura. È il nostro approccio alla ricerca scientifica, come educhiamo e istruiamo le nuove generazioni, come pensiamo alla nostra individualità.

    In una formula: l’ideologia che ha caratterizzato l’era del Progresso. Il primo ad averla saggiamente definita così è stato Jeremy Rifkin.

    Se riconoscessimo questa verità nascosta, scomoda ai più, dovremmo immediatamente concepire nuove regole, un nuovo modello economico, nuove gestioni di governance, un rinnovato rapporto con la natura. Una visione altruista e non più egoista della vita. In tre parole: l’era della Resilienza.

    Ma tutto ciò, come evidente, non è stato sinora possibile a causa dei molteplici interessi che legano a doppio filo l’ideologia dell’età del Progresso e l’1 per cento che domina l’economia globale.

    Prendete la natura: per millenni l’uomo si è adattato alla natura, seguendo i suoi ritmi e vivendo secondo i suoi diktat. Da circa un secolo invece abbiamo brutalmente interrotto questo rapporto, invertendo il trend, e abbiamo fotto in modo di adattare l’eco-sistema in cui viviamo ai nostri bisogni utilitaristici.

    L’uomo ha così via via imposto e ottenuto il quasi totale controllo sulla natura: deturpandola, modificandone il dna, abbattendo spazi un tempo considerati sacri.

    Si è impossessato della sua dimensione mettendo a rischio la specie umana e gli animali. Eppure se ci pensate il pianeta è molto più grande e di valore rispetto alla nostra intera specie, che invece è decisamente più effimera e meno significativa su questa terra. Dai testi sacri della Bibbia in poi l’uomo afferma il proprio dominio sulla natura. Ebbene, non dominiamo proprio un bel nulla (e le conseguenze sono sotto i nostri occhi nell’indifferenza più totale o al più nello stupore generale).

    È estremamente pericoloso ritenere che sia possibile invertire questo rapporto tra uomo e natura al pari (ad esempio) di come durante la pandemia sia stata messa in dubbio la supremazia della scienza sulla tecnica.

    Perciò dovremmo ritenerci estremamente fortunati che una generazione intera, in barba a qualsivoglia sciame di interessi, abbia alzato la voce e si sia costituita, facendo fronte comune, come specie umana in protesta con i governanti del mondo. Una generazione che ha compreso che il mondo è a rischio di estinzione, nessuno escluso. E che se ne frega del vivere l’ora e oggi. Una grande onda pacifica che ha dichiarato l’emergenza climatica superando i limiti della fede, della religione, della politica. E quindi ideologici.

    È per questo che oggi più che mai dobbiamo iniziare a pensare alla natura non più come risorsa e proprietà “passiva” ma come un bene comune auto-organizzato di cui siamo parte. Possiamo, anzi dobbiamo, imparare che è possibile prosperare senza diventare schiavi del concetto di produttività. È la cosiddetta rigeneratività che fa muovere le cose in natura. Non il capitale finanziario, ma il capitale ecologico. Se costruisci armi, ripulisci una discarica di rifiuti tossici, forse generi Pil ma non ne ricavi un valore per l’uomo.

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