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    Il problema non è il portavoce di Al Shabaab che “farà la jihad” grazie al riscatto di Silvia, ma mettergli il megafono in mano

    Di Giampiero Gramaglia
    Pubblicato il 14 Mag. 2020 alle 08:15 Aggiornato il 14 Mag. 2020 alle 18:10

    Dare voce ai terroristi? Riferire quel che dicono? Andarli a cercare per raccontare la loro verità? L’intervista di Repubblica ad Ali Dehere (smentita dallo stesso gruppo terroristico il 14 maggio sul sito SomaliMemo ndr), portavoce di Al Shabaab, l’organizzazione terrorista che ha sequestrato la cooperante italiana Silvia Romano e che s’è resa responsabile di atroci crimini in Somalia e in Kenya, riapre e rilancia un dibattito che attraversa cinquant’anni di storia del giornalismo italiano e ripropone interrogativi che hanno risposte articolate, quando le hanno. Negli anni delle Brigate Rosse, soprattutto nei 55 tesissimi giorni del sequestro di Aldo Moro, ci s’interrogava se fosse giusto dare spazio a quelli che con formula stereotipata erano sempre definiti “i farneticanti comunicati” dell’organizzazione armata, tirati al ciclostile su fogli scritti fitto fitto – le risoluzioni strategiche avevano la dimensione di veri e propri saggi.

    I cronisti del tempo erano avvezzi ad andarli a recuperare nelle cabine telefoniche o nelle cassette delle lettere dove i “postini” delle Br li lasciavano, dopo avere avvertito il giornale, o l’agenzia, di loro scelta. I giornalisti non li considerarono mai uno scoop: non c’erano internet e i social, su cui dare subito l’informazione; una volta acquisiti, gli originali venivano diligentemente consegnati alle forze dell’ordine; e, di lì a poco, la notizia l’avevano tutti. Ma erano documenti da conservare, con l’idea – magari – di scriverci un giorno un libro: a casa, ho ancora una collezione delle copie di quelli che ritirai personalmente, nella Torino cupa degli attentati all’alba, o all’ora dell’uscita dalla fabbrica, nella seconda metà degli Anni Settanta.

    La strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro cambiarono l’atteggiamento: prevalse, grazie anche alla fermezza e alla saggezza del direttore dell’Ansa di allora, Sergio Lepri, l’idea che l’agenzia mettesse a disposizione dei media i testi a lei pervenuti. E ciascun giornale li utilizzava come riteneva: nessuno a mia memoria li pubblicava senza contestualizzarli. Perché uno può anche dire che vuole un mondo migliore, giusto, equo, solidale. Ma se la via che sceglie per arrivarci, come facevano le Brigate Rosse, e come fanno i terroristi di Al Shabaab, è d’uccidere e/o sequestrare innocenti, qualche dubbio sull’attendibilità del messaggio ti deve venire. Che il terrorista agisca in una democrazia, sia pure imperfetta, o in uno “Stato fallito”, magari anche per sua colpa; che sia un “rivoluzionario” o un “jihadista”, un ‘”comunista” o un “oscurantista”.

    Credo che i criteri maturati negli Anni di Piombo restino sostanzialmente validi: dare le notizie che i terroristi forniscono, le rivendicazioni, le richieste di riscatto, gli annunci di liberazioni e/o d’esecuzioni; ma non farsi cassa di risonanza dei loro messaggi propagandistici, anche quando sono “spettacolari” e offrono l’esca dell’audience e/o dei clic, come le iconografie ieratiche dei video d’Osama bin Laden e le immagini “cinematografiche” dei boia in nero e dei condannati in arancione del sedicente Stato islamico. E non offrire mai tribune a chi uccide, rapisce, stupra, che sia nel nome d’un dio o d’un ideale.

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