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    A voi pare normale che i servizi segreti monitorano i giornalisti? (di G. Gambino)

    Il premier Mario Draghi durante una audizione al Copasir. Credit: ANSA/CLAUDIO PERI
    Di Giulio Gambino
    Pubblicato il 16 Giu. 2022 alle 13:22 Aggiornato il 23 Giu. 2022 alle 17:39

    Questa settimana mi sono imbattuto in un’interessante conversazione informale con un alto funzionario statale. Tanto per cominciare ho scoperto che il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), che dovrebbe controllare i servizi segreti italiani, non sa cosa fanno i servizi segreti.

    La vicenda è ormai nota: parliamo del pizzino del Copasir con cui è stata stilata una lista di «Putiniani d’Italia», perlopiù giornalisti presuntamente a supporto di Mosca, rilanciata da un quotidiano italiano non per denunciare una gravissima intromissione dei servizi nella stampa ma per esporre a pubblico ludibrio e denigrare chi – secondo il documento lungo 7 pagine – ha una posizione diversa da quella ufficiale del nostro governo, nell’ambito di una «narrativa inedita» sempre più critica nei confronti dell’operato «del Presidente del Consiglio Mario Draghi». «Non eravamo al corrente, non sapevamo, che i servizi stessero svolgendo un’azione di monitoraggio nei confronti di giornalisti, politici e altri ancora per capire se fossero Putiniani… il che mi rendo conto possa essere bizzarro, perché… bè… insomma, ecco, dovremmo controllare cosa fanno i servizi. Però ce lo siamo ritrovati tra le mani… è stato il frutto tra l’altro di un lungo e normale lavoro inter-ministeriale…».

    Cinque appunti: 1. Questo dialogo surreale rende bene l’idea della competenza di chi oggi siede ai vertici e ai sotto-vertici del Copasir;

    2. Rende anche l’idea del clima che si respira oggi nel nostro Paese, con i servizi indaffarati a scovare presunti Putiniani e a stilare liste di proscrizione di giornalisti e politici presuntamente asserviti a Mosca. Impegnati a segnalare in un documento riservato denominato «Hybrid Bullettin», oggi declassificato, i critici di Draghi e a segnalare chi ha opinioni diverse da quelle ufficiali. Tra l’altro con strafalcioni sciatti e inaccurati, come quello in cui il presidente del Copasir – Urso – viene chiamato Alfonso anziché Adolfo, per dirne una;

    3. Il che ci porta al tema di fondo: la vicenda del pizzino trapelato dal Copasir con la lista degli «amici di Putin» rivela la nostra natura geo-politica, un Paese a sovranità limitata in fin dei conti suddito degli Stati Uniti d’America e prono agli interessi di Washington anche quando questi non combaciano con i propri. Mentre invece mai come in questa guerra dobbiamo dirci tanto anti-russi quanto anti-americani.

    La vera equidistanza non è tra aggressore e aggredito (russi e ucraini), ma tra due potenze (russi e americani) che giocano a fare la guerra sulla pelle altrui, compresa la nostra. Sarebbe stato ugualmente grave se fosse stato reso pubblico un documento con le foto segnaletiche dei presunti Bideniani, ma la sensazione è che quella eventuale lista otterrebbe la medaglia al valore anziché il monitoraggio dei servizi;

    4. Lavoro inter-ministeriale è la super-cazzola più bella che esista: quando chiedi a chi pronuncia queste parole cosa voglia dire, e in che modo c’entri il monitoraggio dei Putiniani con un’attività inter-ministeriale, nessuno sa darti una risposta precisa;

    5. Un ultimo appunto è questo. Visto che ormai tutti al Copasir hanno la bocca cucita e che, con chiunque si parli, questo o quella preme a sottolineare che «non ho parlato di dossieraggio, eh, parliamo di un normale e semplice monitoraggio…», la domanda sorge spontanea: oltre al sottosegretario di Stato della presidenza del Consiglio con delega alla sicurezza Franco Gabrielli, la cui desecretazione del documento del Copasir ha finito per rendere la toppa peggio del buco, parrebbe necessario un imminente cambio ai vertici di chi dovrebbe controllare i servizi segreti italiani. Ai quali la politica, la stampa tutta e i cittadini non dovrebbero permettere mai di mettere in atto alcuna strategia volta a monitorare giornalisti e politici, «finanche sui social». Pena la nostra libertà.

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