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    Le roccaforti elettorali non esistono più. Oggi il voto è post ideologico (di S. Mentana)

    Credit: Ansa foto

    L'editoriale del vicedirettore di TPI Stefano Mentana sul quarto numero del nostro nuovo settimanale

    Di Stefano Mentana
    Pubblicato il 8 Ott. 2021 alle 12:30 Aggiornato il 8 Mar. 2023 alle 15:22

    Quel tempo in cui si sceglieva un partito e lo si votata vita natural durante, salvo magari concedersi qualche giro di valzer con qualche altro contrassegno, è finito, così come finito è quel tempo in cui il figlio del comunista votava comunista e quello del democristiano votava democristiano, salvo qualche atto di ribellione domestica.

    Le ultime elezioni amministrative altro non sono che l’ultimo tassello che ci mostra quanto post-ideologica sia diventata la politica, e quanto un elettore, che si definisca di sinistra o di destra, valuti uno spettro ben più ampio di possibilità. Compresa tuttavia l’astensione, visti i magri dati sull’affluenza. Basta vedere Milano, una città appena l’altro ieri roccaforte del centrodestra berlusconiano, considerata inespugnabile fino alla clamorosa vittoria di Giuliano Pisapia nel 2011, in cui domenica scorsa ha prevalso Beppe Sala con percentuali che sembrano più consone al rosso Mugello.

    Un flusso di voti così rapido nella prima repubblica sarebbe stato quanto mai insolito, ma non certo oggi: è stato detto e ridetto come a Roma i quartieri popolari a est del centro, che formavano la cosiddetta cintura rossa, si sono nel tempo spostati a destra con incursioni verso i Cinque Stelle, così come i Parioli, ex roccaforte delle destre, sono oggi un feudo del Pd. Ed è così che nei due municipi centrali di Roma, quelli dove il reddito medio è più alto, lo scontro all’ultimo voto non è stato tra Gualtieri e Michetti, ma tra Gualtieri e Calenda, una specie di derby interno al centrosinistra che ricorda più delle primarie che un’elezione per il sindaco.

    Tali cambiamenti della mappa elettorale che possono riflettere i mutamenti sociali ed economici o la scelta giusta o sbagliata di un candidato, riflettono anche una società sempre più rapida quanto polarizzata, in cui la longevità del consenso di un leader o partito del momento si fa sempre più sfuggente. Pensiamo al Pd di Renzi, passato in pochi anni dal 40 per cento alle europee del 2014 al 18 delle politiche del 2018, le stesse in cui i Cinque Stelle ottennero il 32 per cento, salvo poi crollare al 17 alle europee dell’anno successivo. Le stesse europee in cui Salvini fece arrivare la Lega a uno storico 34 per cento, percentuale che qualche mese dopo avrebbe iniziato, sondaggi alla mano, una notevole flessione dopo la crisi del Papeete. Se l’elettorato si fa sempre più volatile è proprio perché, caduta la contrapposizione tra i blocchi, ai problemi non si risponde più con modelli sociali ed economici, ma con soluzioni che, valide o meno, non hanno sempre il peso di un’ideale alle spalle.

    Il tutto in una società che si fa sempre più rapida, favorendo contrapposizioni e lasciando che anche le idee durino quanto le interazioni che ricevono sui social: non c’è da stupirsi che tale velocità trovi riscontro anche nella cabina elettorale.

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