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    Referendum condannati a morte dal quorum: ecco perché va ripensata la soglia minima di validità (di M. Ainis)

    Come ampiamente previsto i cinque quesiti referendari sulla Giustizia non hanno raggiunto il quorum, così come avvenuto, dal 1997 in poi, a 25 dei 29 referendum proposti: il costituzionalista Michele Ainis spiega a TPI perché, per salvare la consultazione popolare, è necessario ripensare la soglia minima di validità

    Di Michele Ainis
    Pubblicato il 13 Giu. 2022 alle 12:44 Aggiornato il 13 Giu. 2022 alle 15:30

    La Costituzione italiana vieta la pena di morte, però condanna a morte i referendum. Per eseguire la sentenza non servono i fucili, basta un latinetto: quorum. Ossia la percentuale d’elettori che devono recarsi ai seggi, per rendere valida la consultazione popolare. Nel caso del referendum abrogativo, si tratta della maggioranza del corpo elettorale; se non viene raggiunta, sia pure per un soffio, il referendum fa cilecca. Come accadde nel 1999, quando il quesito sul maggioritario – che ci avrebbe risparmiato il Porcellum e le altre pessime leggi elettorali escogitate dai nostri pessimi politici – toccò un’affluenza del 49,6%, ottenne il consenso del 91,5% dei votanti, però rimase carta straccia. E come è successo, dal 1997 in poi, per 25 dei 29 referendum che ci sono stati sottoposti: tutti falliti per assenza del quorum.

    È successo anche il 12 giugno per i 5 referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali. Giusto così, diranno gli avversari di quest’ultima proposta; ma sbagliato per il referendum, per l’istituto in sé, quando immalinconisce in una serie di risultati nulli, che impediscono la conta tra favorevoli e contrari. I costituenti scelsero il quorum perché avevano il «complesso del tiranno»: uscivano da una lunga dittatura, e temevano che in futuro se ne facesse un uso demagogico. Sicché respinsero la proposta di Mortati, che contemplava, fra l’altro, il referendum propositivo; e disegnarono un edificio istituzionale diffidente verso ogni forma di democrazia diretta. Dopo tre quarti di secolo, sarebbe il caso tuttavia di ripensarci, e per una serie di ragioni.

    In primo luogo, a quel tempo 9 italiani su 10 andavano a votare; adesso, quando va bene, uno su due. Sicché pretendere un’alta affluenza è divenuto antistorico, e infatti il quorum è recessivo in tutto il mondo. Non solo in Svizzera e negli Usa, Paesi che prendono sul serio il referendum; anche in Europa sono soltanto 15 gli Stati che adottano il quorum. Quanto all’Italia, il quorum zero vige in Veneto, oltre che in vari comuni per i referendum locali; basterebbe ripeterne l’esempio. O almeno accettare il compromesso proposto nel 2016 dalla riforma Renzi, rapportando il quorum alla percentuale di votanti nell’ultima elezione.

    In secondo luogo, il quorum presuppone un ambiente politico leale; altrimenti i partiti contrari al referendum hanno buon gioco ad organizzare l’astensione, sommandosi alla quota d’astensionismo fisiologico. «Un trucco», scrisse Bobbio nel 1990; ma dal 2005 (referendum sulla fecondazione assistita) si gioca sempre a carte truccate.

    In terzo luogo, la regola del quorum è in contraddizione con se stessa. Dovrebbe presidiare la serietà della consultazione, impedendo che pochi decidano per tutti. E allora perché non c’è alcun quorum nel referendum più importante, quello costituzionale? E perché le elezioni sono sempre valide, anche se alle urne ci va solo una zia? È il «paradosso dell’uno determinante», che decide in solitudine la composizione del Parlamento e del governo. Ma è un paradosso pure il quorum, se diventa l’arma per ammazzare i referendum, invece di difenderli.

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