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    Quando il femminicida era un eroe. E vinceva pure l’Oscar (di V. Magrelli)

    Di Valerio Magrelli
    Pubblicato il 25 Nov. 2021 alle 16:52

    Ormai completamente saturo di serie tv, chiedo consiglio a un amico cinefilo su qualche film. Ed ecco la scoperta: addirittura gratis, su YouTube c’è una pellicola in bianco e nero ambientata tra le macerie di una Genova uscita dalla Seconda guerra mondiale, Le mura di Malapaga (Au-delà des grilles), diretto nel 1949 da René Clément. Sottraendosi alla giustizia francese, Pierre (un maturo e irresistibile Jean Gabin) sbarca in città da clandestino. Sceso per il dolore di una carie, incontra una bambina che lo guida prima da un dentista, poi nella trattoria dove lavora sua madre Marta (una intensa Isa Miranda). La donna è separata da Giuseppe (Andrea Checchi), marito brutale che la perseguita per portarle via la figlia. Tra la cameriera e il forestiero scocca la passione, finché… Sceneggiato dal produttore Alfredo Guarini, marito di Miranda, con Cesare Zavattini e la giovane Suso Cecchi D’Amico, l’opera – spiega il Dizionario Morandini – è un curioso incrocio tra la tematica del cinema francese prebellico (il destino, un amore impossibile, il personaggio mitico del viaggiatore) e il contesto italiano, non senza influssi neorealistici: basti pensare al condominio dove vivono madre e figlia, con la vicina di casa interpretata da Ave Ninchi. Gli interni furono girati a Roma, mentre gli esterni si svolgono lungo le storiche mura di Genova, intorno all’antica piazza Cavour.

    Ebbene, presentato in concorso al Festival di Cannes del 1949, il film vinse sia il premio per la migliore regia, sia quello per la migliore interpretazione femminile, e nel 1951 si aggiudicò addirittura l’Oscar come migliore film straniero. A questo punto, ogni lettore si domanderà: al di là dei suoi indubbi meriti, perché tirare fuori questo lavoro vecchio di settant’anni? Semplice, perché il motivo che fa di Jean Gabin un ricercato è ciò che oggi chiamiamo “femminicidio”. Il nostro eroe, difatti, ha ucciso la propria amante, una ragazza di 22 anni che aveva l’inaudita pretesa di lasciare il grand’uomo per un giovane coetaneo! Quando arriva la confessione, siamo a metà della storia, e la frittata è fatta: naturalmente tutti noi spettatori abbiamo preso le parti del latitante e detestiamo gli odiosi poliziotti che gli danno la caccia. Marta, per prima, lo capisce e lo apprezza: come potrebbe essere diversamente? Come non ammirare qualcuno che, ferito nell’onore in modo intollerabile, si è vendicato? Tutti lo compiangiamo, maledicendo il destino che obbliga un povero innocente a fuggire da un editto crudele. Poi mi sono svegliato, risvegliato dal film come da un incubo, per ritornare nel 2021. Con un sospiro di sollievo, mi sono detto che oggi, per fortuna, una trama del genere sarebbe inammissibile. Viviamo giorni difficili, è indiscutibile, ma certe forme di barbarie, almeno, le abbiamo abbandonate. Non compatiamo più chi ha ucciso una donna. E ne ho gioito a lungo.

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