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    Draghi è un’occasione per la politica italiana, ma il “populismo delle élite” rischia di rovinarla

    Illustrazione di Emanuele Fucecchi

    Come il populismo anti-establishment, anche quello delle élite è una forma di anti-politica: svaluta infatti la politica, credendo di poter affrancare la competenza dalla legittimazione democratica e dalla rappresentanza sociale. Ma l'agiografia dei tecnici è pericolosa: se la stagione di Draghi non si tradurrà in un progetto politico reale, capace di riscuotere consenso, il populismo sovranista e anti-casta risorgerà presto dalle sue ceneri

    Di Luca Serafini
    Pubblicato il 3 Apr. 2021 alle 10:56

    L’inaspettato rivolgimento che ha segnato questa fase della politica italiana, con la caduta di Conte e l’insediamento del Governo Draghi, è stato accolto da una fetta consistente di opinione pubblica come un vero e proprio cambio di paradigma.

    Dopo una lunghissima stagione segnata dalla contrapposizione tra popolo ed élite, dalla svalutazione delle competenze, dall’anti-politica, l’avvento (il lemma messianico è in questo caso opportuno) di Draghi, come in una hegeliana filosofia della storia, rappresenterebbe secondo questa visione una specie di superamento dialettico del populismo, il suo annullamento in un trionfo del sapere assoluto, qui inteso come competenza dell’uomo che tutto sa e nulla, per questo, può sbagliare.

    Draghi, in quest’ottica, è stato descritto da numerosi commentatori come l’espressione della “legittimazione delle élite, nello specifico quelle tecniche”. Se il populismo ha proliferato grazie all’inadeguatezza della classe politica, l’inattaccabile figura di Draghi sarebbe stata in grado d’emblée di ribaltare questo schema. Draghi del resto, come è stato scritto qui, incarnerebbe una leadership priva di tutti gli elementi tradizionalmente associati al populismo: la contrapposizione fra popolo ed élite, una comunicazione politica personalizzata e una struttura partitica di sostegno dominata dalla leadership.

    E che uno scompaginamento vi sia stato è innegabile: Salvini ha assunto dall’oggi al domani posizioni europeiste (in patria e per poco, visto che poi è finito a flirtare con Orbán), Grillo ha sepolto per sempre la stagione del “vaffa”, aprendo al lealismo coi competenti (ben poco apprezzato, tra le sue fila, dai nostalgici del massimalismo anti-casta, ormai messi alla porta). Analogo scompaginamento è rinvenibile nel consenso popolare di cui gode attualmente Draghi: un consenso del popolo per le élite, emblema anch’esso di un potenziale cambio di paradigma.

    La pandemia, del resto, aveva già evidenziato un “desiderio di competenza” diffuso a quasi tutte le latitudini. Si è molto discusso del calo di consensi dei partiti populisti da quando l’emergenza Covid è esplosa. Una crisi che a Trump è costata la rielezione e che ha parzialmente sgonfiato la forza d’urto di diversi partiti populisti in giro per il mondo, Lega compresa. Draghi insomma avrebbe portato a compimento questo processo, ridisegnando il sistema politico-partitico italiano e traghettandolo nella fase del post-populismo.

    Da qui si è originato un racconto mediatico di carattere agiografico, volto a esaltare nella figura del premier questo apparente superamento di tutte le precedenti contraddizioni, trasformando le sue indubbie competenze in poteri di natura taumaturgica, sostanzialmente al riparo dalla complessità della gestione quotidiana della cosa pubblica. Le semplificazioni estreme ormai connaturate al racconto mediatico della realtà, specie a quello che si struttura sui media digitali, hanno fatto il resto.

    Pier Luigi Bersani, in una puntata di Otto e Mezzo, ha provato a categorizzare tutto ciò parlando di “populismo delle élite”, riferendosi con questa espressione alla descrizione di Draghi da parte di media, esperti e commentatori come un personaggio in grado di “camminare sulle acque”, a fronte del “massacro oltre il ragionevole” a cui era stato invece sottoposto il Governo Conte. In questo articolo su Jacobin Italia si è altresì parlato di “populismo delle élite” in riferimento alla sostituzione della precedente dicotomia “élite/popolo” (su cui hanno proliferato i populisti) con quella “competenti/incompetenti”.

    Ma da cosa nasce questo presunto “populismo delle élite” e, soprattutto, di cosa stiamo effettivamente parlando? Per certi versi il “populismo delle élite”, che si alimenta di semplificazioni e mitizzazioni analoghe a quelle del “populismo anti-establishment” (santificando le élite laddove prima si santificava il popolo), ha a che fare con una svalutazione della politica che, a ben vedere, è tipica del populismo in ogni sua versione. Anch’esso, quindi, si configura come una forma di anti-politica.

    Innanzitutto, come ampiamente argomentato in numerosi articoli, anche su questo giornale, l’idea che la competenza tecnica possa essere oggettiva e a-politica è una pia illusione. Ogni decisione politica è infatti un “prendere parte”, è quello che potremmo definire non un “sapere tecnico”, bensì un “sapere sociale”, che prova a fare una sintesi tra interessi contrapposti, privilegiandone consapevolmente alcuni a scapito di altri. I tecnici operano nelle strutture amministrative, burocratiche e ministeriali, hanno capacità analitico-professionali, mentre la competenza del politico è appunto di natura sintetica, tipica di chi deve mediare, negoziare, ascoltare, parlare, farsi capire, rappresentare degli interessi.

    Nel mito populista, che sia anti-establishment o delle élite, c’è invece l’illusione di tagliare fuori la mediazione della politica, intesa come il rapporto tra il professionismo politico e il consenso popolare che deve legittimarlo.

    Da una parte c’è quindi il populismo anti-establishment, tutto schiacciato sul polo del “popolo”, inteso come depositario della purezza che la politica ha corrotto. Da qui le follie dell’uno vale uno, l’assurda svalutazione della competenza, l’idea che la rappresentanza politica sia inutile e che la classe dirigente si possa selezionare con un video autopromozionale su Youtube.

    Sull’altro fronte, però, anche le élite possono farsi populiste tagliando fuori la politica, laddove non si limitano a conferire il suo sacrosanto valore alla competenza tecnica, ma la elevano in un iperuranio incontaminato, indifferente all’agone politico, alla legittimazione popolare, al gioco democratico. In questo modo, anche il populismo delle élite, come quello anti-establishment, diventa anti-politica.

    Il leader di Italia Viva Matteo Renzi, principale regista dell’operazione Draghi, ha affermato che “con questo Governo si è aperta la stagione della primavera italiana: è la sconfitta del populismo e il trionfo della politica”. In altre interviste, analizzando sia questo passaggio politico sia la crisi di consensi del suo partito (inchiodato a un misero due per cento), ha spiegato che, a suo modo di vedere, molto più che i consensi (che a Conte di certo non mancavano) contano le riforme, la capacità di rimettere in piedi l’Italia.

    Queste affermazioni sono però palesemente in contraddizione tra loro: non esisterà mai un trionfo della politica in una situazione di commissariamento della stessa, o senza che le buone riforme siano accompagnate da una legittimazione popolare che è il fulcro e l’essenza della politica democratica. Non come mero gioco formale, ma nel suo concreto processo di rappresentanza di interessi e bisogni sociali.

    E attenzione: scambiare l’attuale fiducia di cui gode Draghi nel Paese come il segno della definitiva riscossa di élite politiche prima bistrattate sarebbe una grossolana illusione. In primo luogo perché Draghi non è un politico, bensì un tecnico prestato alla politica in una situazione di emergenza, esattamente come avvenne con Monti (anch’egli popolarissimo nelle prime fasi della sua azione governativa, salvo poi naufragare alla prova delle urne con Scelta Civica). In secondo luogo, e anche qui il precedente di Monti è istruttivo, perché la “democrazia dall’alto”, la tecnocrazia che commissaria la politica, è uno scenario plausibile solo in condizioni di estrema emergenza (quale certamente è una pandemia). Ma l’emergenza è, per definizione, una situazione che risponde a logiche diverse (per l’appunto “eccezionali”) rispetto a quelle della gestione quotidiana in tempi “normali”.

    Il consenso del tecnico nella fase emergenziale non si traduce automaticamente in un disegno politico: sta ai politici renderlo tale, costruendo sulle fondamenta di questa stagione governativa un progetto che riscuota consenso, che risulti comprensibile alle persone, che le convinca a eleggere rappresentanti che potranno poi portarlo avanti nel lungo periodo.

    Per superare davvero l’uno vale uno, il populismo anti-establishment o il sovranismo, non basterà certo cullarsi nel draghismo o pensare che esso si tramuterà inerzialmente in un bagno di popolo al prossimo giro elettorale. L’emergenza prima o poi finirà, i tecnici prima o poi torneranno a lavorare nel retropalco. Draghi in questa fase può aver “domato il populismo”, come sostengono in molti, ma quello stesso populismo tornerà in auge se le presunte buone riforme, come avvenuto in passato, non saranno spiegate in maniera efficace alle persone, non verranno comprese, o semplicemente non saranno buone riforme.

    È questo, in fondo, il populismo delle élite: la svalutazione del rapporto tra la competenza politica e la sua traducibilità in un progetto sia comprensibile per il popolo, sia per esso effettivamente vantaggioso, e per questo premiato. Qualche settimana fa è uscito su Linkiesta un appello per unire i riformisti e liberal democratici nel segno della stagione politica inaugurata da Draghi. Un’operazione che potrà avere senso solo se quegli stessi riformisti e liberal democratici non commetteranno gli stessi errori che li hanno relegati per tre lustri all’irrilevanza politica, all’ancillarità al sovranismo populista.

    Perché se l’uno vale uno ha proliferato, se Salvini è arrivato al 35 per cento dei consensi e se un certo riformismo anche di stampo centrista in Italia è sparito, ciò è in parte imputabile proprio al populismo delle élite: che non hanno ascoltato la sofferenza sociale emersa dopo la crisi economica del 2007, che hanno persistito nel proporre ricette superate dalla storia, che hanno talvolta persino deriso quel disagio, bollandolo come inesistente, gettando così milioni di persone tra le braccia di sovranisti e populisti, gli unici che sul mercato proponevano qualcosa (demagogico o meno che fosse).

    Pensare che populismo e sovranismo abbiano sbancato solo per l’ignoranza delle persone, per colpa di un sistema mediatico anch’esso populista, per responsabilità dei social network, dei bot russi o delle fake news, è una piacevole forma di autoassoluzione ma è anch’essa una manifestazione del populismo delle élite.

    Con la manovre parlamentari si può costruire un Governo Draghi, ma la democrazia dall’alto ha un orizzonte temporale molto limitato, e farsi capire solo dai competenti nelle bolle dei competenti, alla lunga, porterà sempre ad essere schiacciati dalla democrazia reale, quella dal basso. Per questo Draghi può forse permettersi di parlare poco, di amministrare senza comunicare, ma questa non potrà mai essere la cifra di una politica democratica in cui le riforme, persino quelle impeccabili, per trasformarsi in consenso vanno spiegate tanto ai dottori di ricerca quanto a chi (magari a causa di condizioni economiche e sociali svantaggiate) si è fermato alla terza media.

    Per evitare il populismo delle élite, insomma, i riformisti devono “farsi politica”, non pensare che la politica, intesa come mediazione e rapporto virtuoso tra competenti e popolo, sia superflua, che possa esistere una tecnocrazia permanente dei competenti calata dall’alto.

    Alle scorse elezioni, quegli stessi riformisti furono travolti da una proposta tanto semplice quanto in grado di parlare a tutti, il reddito di cittadinanza, oggetto di scherno e risatine e che invece andava a intercettare una richiesta inascoltata di protezione sociale. Una proposta a cui le élite non hanno saputo contrapporre nulla di sostanziale. Ma perché, viene da chiedersi, chi non arriva alla fine del mese dovrebbe votare chi gli spiega che il reddito di cittadinanza è inutile non proponendo nulla di alternativo, rispetto a chi invece gli assicura in qualche modo un’entrata?

    Si tratta solo di un esempio, ma serve a comprendere come questo decantato superamento del populismo per opera di Draghi sia un’occasione che rischia di andare sprecata, se si crede che possa affrancare i partiti ora fieri del draghismo dallo sforzo di parlare a tutti. Perché altrimenti, finita l’emergenza, Salvini e la Lega potranno tornare sovranisti tout court, i Cinque Stelle potranno tornare quelli di prima o essere sostituiti da movimenti analoghi, la domanda di protezione sociale si ri-trasformerà in anti-politica e saremo punto e daccapo, col populismo delle élite che ben lungi dal cancellare il populismo anti-establishment sarà (nuovamente) ciò che più di ogni altra cosa lo avrà fatto risorgere dalle sue ceneri.

    Leggi anche: 1. Il populismo chic delle élite: la competenza come unica fede / 2. Se il popolo è diventato populista (e razzista) la colpa è delle élite, che ora cercano alibi invece di rimediare

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