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    Il martirio di un transessuale (di V. Magrelli)

    Di Valerio Magrelli
    Pubblicato il 14 Gen. 2022 alle 15:45 Aggiornato il 14 Gen. 2022 alle 15:46

    Il nome di Montaigne da noi non è famoso quanto dovrebbe essere. Eppure c’è chi lo ha considerato l’equivalente francese di Dante. Logico che l’Einaudi abbia pubblicato un bel saggio su di lui, “L’istante e la libertà”, di Rachel Bespaloff. Il vertice della sua opera sono i “Saggi”, che nella seconda metà del Cinquecento fondano addirittura un vero e proprio genere letterario. Io li venero, e tuttavia, confesso, avevo sinora ignorato il suo “Viaggio in Italia”.

    Detto fatto: approfittando della prima quarantena, ho cominciato a leggerlo con gioia. Partito da Bordeaux, Montaigne setaccia Francia e Svizzera alla ricerca di terme e acque capaci di guarirlo dai calcoli renali. Ma questa spedizione terapeutica, con quattro amici e vari servitori, è in realtà l’occasione per studiare le culture che incontra, comparandole con la propria. «Per saggiare fino in fondo la diversità di costumi e maniere», racconta infatti, «il signore di Montaigne si lasciava servire ovunque al modo di ogni paese, qualsiasi difficoltà ciò comportasse».

    Come ci si saluta, come ci si veste, come si prega, come si beve: per questo pioniere dell’etnografia, non esiste dettaglio privo di valore. Finché, dopo poche pagine, il lettore si imbatte in due stupefacenti storie di carattere sessuale. Una riguarda il caso di “Marie la barbuta”, una ragazza che, per via della peluria sul mento, aveva ricevuto tale soprannome. Ebbene, un bel giorno, a causa di uno sforzo, «i suoi attrezzi virili si produssero», per una specie di estroflessione. Senza troppi problemi, il vescovo la ribattezza Germain, mentre in paese inizia a circolare una canzone che raccomanda alle donne di non affaticarsi troppo, per evitare di diventare maschi.

    Rispetto a questo esempio di ermafroditismo, assai più tragica è la seconda vicenda. Ecco i fatti: negli anni precedenti, sette o otto ragazze dei paraggi avevano deciso di vestirsi da maschi, «e continuare così la loro vita nel mondo». Uno di loro (uso il maschile per rispettarne la scelta) si stabilì come tessitore nel paese. Amico di tutti, si fidanzò con una ragazza, anche se poi non concluse il matrimonio. Trasferitosi poco distante, si sposò con un’altra donna. Vissero insieme per quattro o cinque mesi, finché qualcuno lo riconobbe, trascinandolo davanti a un tribunale. Qui venne condannato all’impiccagione per «invenzioni illecite a supplire al difetto del suo sesso». Montaigne però aggiunge: «Ma lei diceva che preferiva soffrire, piuttosto che tornare nello stato di fanciulla».

    Ecco, queste parole mi hanno profondamente turbato. Preferire un’orribile morte, rispetto alla prospettiva di dover tornare a una condizione faticosamente lasciata, mi pare una testimonianza altissima, toccante. C’è solo una parola per commentare un simile dramma: martirio. Montaigne narra il martirio e la fierezza di un transessuale, ucciso nell’Europa delle streghe e dell’inquisizione.
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