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    L’ipocrisia di chi è contro l’aborto ma se ne frega dei bambini (di A. Stille)

    Smettiamola almeno di fingere che il diritto alla vita sia generato dalla preoccupazione per i bambini. La motivazione di chi si oppone all’aborto è prevalentemente religiosa e politica

    Di Alexander Stille
    Pubblicato il 9 Lug. 2022 alle 15:04 Aggiornato il 7 Mag. 2023 alle 12:39

    La decisione della Corte Suprema di revocare il diritto all’aborto ha dato la sensazione che negli Stati Uniti sia stato raggiunto – o già superato – un punto di svolta. La fiducia degli americani nella Corte è scesa ai minimi storici: solo il 25% della popolazione ne ha stima, un dato dimezzato rispetto a vent’anni fa.

    Per la maggior parte dei cittadini si tratta chiaramente di un organo politico, che favorisce il Partito Repubblicano e le questioni conservatrici in generale. Del resto, ci sono molte ragioni per essere scettici nei confronti della Corte Suprema. Samuel Alito, il giudice fervente cattolico che ha scritto il parere sull’aborto, scrive in modo commovente a proposito della vita del feto in utero ma mostra poco o nessun interesse per l’impatto che la sua decisione ha sulla vita delle donne e dei loro bambini. Non è compito della Corte, scrive, valutare «l’effetto del diritto all’aborto sulla società e in particolare sulla vita delle donne».

    Alito e i fautori del «diritto alla vita» non mostrano interesse neppure per la vita di quegli stessi bambini, una volta nati. Come emerso da uno studio, i quattordici Stati americani con le leggi più restrittive sull’aborto hanno i record peggiori per quanto riguarda il benessere delle donne, dei bambini e delle famiglie. Guidano le classifiche nazionali sulla mortalità infantile e la morte delle madri durante il parto. Hanno scarsi livelli di assistenza sanitaria e strutture per l’infanzia, pochi programmi per aiutare le donne costrette a crescere bambini che non volevano.

    Il Mississippi – lo stesso Stato che ha intentato la causa culminata con il ribaltamento di Roe v. Wade (il caso del 1973 che ha stabilito il diritto all’aborto negli Stati Uniti) – è al 48esimo posto su 50 tra gli Stati americani in aree chiave come l’istruzione, il benessere economico, la salute, e la condizione delle sue famiglie. In altre parole, la cura del bambino sembra finire alla nascita. Abbiamo dunque già una buona idea di cosa accadrà alle donne a cui viene negato l’accesso all’aborto e ai loro figli.

    Un progetto di ricerca noto come “Turn Away” (Rifiuto) ha tracciato la vita di mille donne a cui le leggi dei rispettivi Stati hanno vietato di abortire: queste si sono rivelate più propense a cadere in povertà, a finire per crescere i loro figli da sole, a diventare vittime di abusi domestici, ad avere problemi di salute. E non sorprende che anche i loro figli abbiano sofferto: più probabilità di vivere in povertà, meno probabilità di finire la scuola.

    Smettiamola almeno di fingere che il diritto alla vita sia generato dalla preoccupazione per i bambini. La motivazione di chi si oppone all’aborto è prevalentemente religiosa e politica. Ed è legata a una visione religiosa del mondo che vorrebbe portare l’orologio a un’era precedente. Nel 2003 la Corte Suprema ha finalmente ribaltato una vecchia legge del Texas che criminalizzava la sodomia. Ebbene, il procuratore generale del Texas ha detto che sarebbe pronto a difendere quella legge, se il suo Stato decidesse di reintrodurla. Il giudice Clarence Thomas, nel suo parere concordante allegato alla sentenza sull’aborto, ha affermato che la pronuncia sull’interruzione di gravidanza apre la strada a sfidare il diritto al controllo delle nascite e ai matrimonio gay.

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