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    Il Pd e la paura di conoscere se stesso (di G. Gambino)

    Di Giulio Gambino
    Pubblicato il 9 Feb. 2023 alle 11:57 Aggiornato il 16 Feb. 2023 alle 14:57

    Ciò che più pesa, nei giorni immediatamente precedenti il voto per le primarie del Partito democratico con cui gli iscritti sceglieranno il nuovo segretario, è l’assenza del dibattito intorno a che cosa sarà e che cosa farà il nuovo Pd. La sfida incentrata sui quattro candidati ha visto correnti dividersi, veterani politici e intellettuali prendere parte alla competizione, ex leader e dirigenti di partito esprimere il proprio consenso a favore di questo o quel candidato. Ma nessuno, fatto salvo qualche rara eccezione, ha posto al centro di questa sfida il tema dei temi: l’identità e la natura stessa del Pd. Che poi vuol dire il rispetto degli elettori.

    Sarà pur fantascienza (o una pia illusione) ragionare su questioni simili, ma partiamo da un fatto, che vale per tutti e per ogni circostanza: senza chiarezza, senza fare tabula rasa, non potrà mai esserci futuro. Sì, perché così facendo – ignorando cioè questioni al cuore degli elettori di centrosinistra – si finisce per spazzare via la polvere sotto al tappeto (proprio questa, curiosamente, è stata l’espressione utilizzata da uno dei quattro candidati alla segreteria dem, critico nei confronti dei due principali contendenti perché «espressione dell’establishment»).

    Eppure il seme degli argomenti è da tempo piantato, germoglia nel dibattito pubblico ma subito dopo viene strappato via con violenza. Per non essere mai affrontato.

    Tutti, nessuno escluso, hanno paura di affrontare una così radicale e completa discussione. In primo luogo perché li riguarda tutti e vorrebbe dire rinnegare parte del proprio passato. Secondo: perché è sconveniente. E infine perché è drammaticamente faticoso. E così il nastro si riavvolge da dove lo avevamo lasciato l’ultima volta. Ma come è possibile tutto ciò? Com’è possibile fare finta di nulla, in balia degli eventi, magari addossando la colpa a chi c’era prima?

    Pensateci, è grave: nessuno dei candidati in corsa per il titolo di segretario, dopo il risultato deludente alle elezioni del 25 settembre, ha fatto i conti con il proprio elettorato. Eppure la prima qualità richiesta a un aspirante leader è di sapersi sobbarcare il fallimento della precedente gestione. Sarebbe bastata una conferenza stampa nella quale, rivolgendosi al pubblico, ammettere i propri errori, le proprie disfatte, le ragioni di queste sconfitte. Utilizzando parole chiare, termini riconoscibili e familiari per un elettorato rimasto orfano, colpevole solo di aver dato fiducia – anche oltre l’inverosimile – a un gruppo dirigente che ha chiesto loro il voto per oltre un decennio salvo poi fare l’esatto contrario di quanto aveva promesso. L’idea che un partito di governo debba essere responsabile è un conto; ma il fatto che ciò comporti il consueto tradimento di una mission e di valori congeniali a quell’elettorato è ben altro.

    Lavoro, diritti sociali, ambiente. Fuori le lobby e i gruppi d’interesse. Un solo padrone: la collettività e l’interesse pubblico. Tre frasi scandite in breve che, proprio a causa dei fallimenti precedenti, oggi verrebbero criticate come intrise di retorica e populismo ma che in realtà sono capaci di definire se stessi più di mille fronzoli, di dare speranza a chi oggi è frantumato in pezzi, a chi è solo.
    Perché il problema è proprio questo: più che la sfida tra Bonaccini e Schlein – nessuno dei quali, per la verità, portatore di un proprio pensiero degno di nota e dei quali tra l’altro già conosciamo bagaglio culturale, corrente politica e rispettivi mandanti – sarebbe opportuno scandagliare chiare intenzioni e interessi mirati, visto che delle vere idee nemmeno a parlarne.

    In questo senso, basterebbe che rispondessero a queste domande: la politica sociale, economica ed estera del prossimo segretario dovrà essere in linea a quella perseguita da Enrico Letta? Si rifarà sulle orme dell’ultimo Matteo Renzi? E se così non fosse, in che modo cambierà?

    Ora, dato che se il Pd sta elettoralmente in piedi lo deve in larga parte alla sua storia e alla sua eredità, e tenuto conto che i singoli uomini che ne fanno parte, di voti, a livello nazionale, da soli non ne prenderebbero poi così tanti (non tutti li riconoscono o sanno chi sono), non sarebbe opportuno per il grande pubblico conoscere le reali intenzioni di chi si candida a guidare il partito? Sarebbe tutto molto più semplice. A meno che la partita non sia già scritta. E il destino di questo partito ineluttabilmente segnato.

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