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    Guai a parlare di armi con i migliori: l’incredibile silenzio del governo sulla guerra (di G. Gambino)

    Mario Draghi e Volodymyr Zelensky. Credit: Ufficio Stampa Palazzo Chigi

    L’Italia è uno dei pochi paesi nell’Ue ad aver secretato le armi che inviamo a Kiev. Cosa c’è da nascondere? L'editoriale del direttore di TPI Giulio Gambino

    Di Giulio Gambino
    Pubblicato il 23 Giu. 2022 alle 17:45 Aggiornato il 30 Giu. 2022 alle 16:01

    Premessa: questo editoriale non ha interesse a indugiare nel giudizio critico nei confronti del governo di Mario Draghi. Non c’è dubbio che l’uomo sia un buon banchiere ma due o tre cose sul suo operato sin qui bisogna dirle. A cominciare dal fatto che il premier e i suoi ministri, noti anche come i migliori, hanno concluso ben poco in questo anno e mezzo. Partite dalle riforme: nessuna delle promesse fatte – scuola, giustizia, lavoro – è stata portata a compimento. Peggio ancora sul piano economico, dove nulla del miracolo annunciato è stato fatto. E oggi ci ritroviamo il ministro Brunetta che bullizza in diretta Instagram un impiegato che voleva dire la sua: «No, non ti lascio parlare perché il microfono ce l’ho io, quindi comando io. Viva la democrazia. Continua a fare il tappezziere, dipendente». (È tutto vero). Del Pnrr non si parla più eppure siamo in ritardo su tutta la linea. Certo, la guerra ha giocato un ruolo e non ha aiutato. Il fatto però è questo: il governo dei galattici non sta sulle cose, non si adopera per i dossier più caldi, è all’angolo del ring in attesa di tempi migliori. Una litania iniziata con le elezioni del Presidente della Repubblica. È da allora che questo esecutivo ha deciso di entrare in anestesia. Così, mentre tutto è fermo, qui fuori si prepara la tempesta. L’inflazione è alle stelle: pasta, pane, latte, benzina, luce, gas, i prezzi crescono enormemente ma i salari rimangono invariati.

    Di Ucraina poi nemmeno a parlarne, letteralmente: il governo ha talmente poco elaborato una propria idea o strategia che si preferisce non parlarne. E non si capisce come mai, infatti, il dibattito sul nostro coinvolgimento nella guerra sia quasi del tutto azzerato. Un conto è schierarsi giustamente a difesa di un Paese brutalmente aggredito; un altro accettare di sana pianta che dieci ministri riuniti intorno al tavolo dell’ex banchiere decidano per 60 milioni di italiani ignorando le richieste del Parlamento di tenere conto anche di chi, ad esempio, oggi ritiene più pericoloso inviare armi che mediare per la pace.

    Problema: in quasi tutti gli altri Paesi europei il pubblico viene informato in modo plurale sulla guerra; noi invece abbiamo già deciso che fare la guerra in nome e per conto di Washington sia ciò che dobbiamo e che vogliamo fare. Di più: in diverse nazioni l’informazione pubblica dedica ore e pagine intere di approfondimenti sulle armi che oggi noi europei abbiamo deciso di inviare a Kiev. Il pubblico è informato in maniera dettagliata su tutto: quali armi e munizioni vengono inviate, a chi e in che misura, per quale specifico scopo vengono impiegate, cosa comporta sul terreno una strategia simile, e via dicendo. In Italia, invece, il materiale bellico che viene spedito in Ucraina è secretato. Ufficialmente non si può sapere nulla al riguardo. Il che è grave e alimenta un mistero che non ha motivo di esistere, se non per un fatto: la corsa al riarmo di cui ci siamo resi protagonisti anche noi italiani è il biglietto d’ingresso per partecipare al club dei presunti vincitori. Senza tuttavia mai pretendere nulla in cambio, come da tradizione di chi non crede di poter contare ma già sa che deve restare all’interno di un meccanismo che ha il solo interesse di alimentare lo status quo. Combattere e logorare. Nel buon nome delle armi, del petrolio e dei flussi migratori, oggi preziosa merce di scambio politica. E quale miglior garanzia del banchiere ultra-atlantista con gli occhi a stelle e strisce per tenere saldo il sistema? La replica a una simile domanda, nel dibattito odierno, è tipicamente questa: meglio i russi, allora? No, per nulla, sarebbe auspicabile un’Europa che, fattasi grande, persegua i propri interessi anziché avallare strategie altrui in virtù di un patto non scritto (per buona parte desueto) chiamato Occidente che tuttavia tutela solo un attore. Eppure non sarebbe poi così difficile da capire, in passato c’è stato già qualche leader – non solo politico – che ha tentato di scardinare il sistema dall’interno per seguire questa strada: parlare con tutti, decidere da soli.

    Un anno e mezzo fa si sarebbe detto: Draghi ha uno fra i più alti consensi popolari mai ottenuti da un premier, pur non essendo mai stato eletto dal popolo. Oggi nemmeno più quello. Un recente sondaggio elaborato da Termometro Politico ha rilevato che il 67 per cento degli intervistati non vuole l’ex presidente della Bce di nuovo nel ruolo di presidente del Consiglio al termine del suo mandato. Il 51 per cento afferma di non avere fiducia nell’attuale premier mentre il 16 per cento, pur approvando il suo operato, auspica un esecutivo politico l’anno prossimo. Dite ciò che volete, ma dall’uomo venuto per salvare l’Italia (da cosa?) ci saremmo aspettati di più. Molto di più.

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