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    Il catenaccio: cosa racconta di noi lo schema tipico del calcio italiano (di S. Mentana)

    Daniele De Rossi e Andrea Pirlo circondano Andres Iniesta in una partita degli Europei 2012. EPA/BARTLOMIEJ ZBOROWSKI
    Di Stefano Mentana
    Pubblicato il 17 Giu. 2021 alle 16:28 Aggiornato il 17 Giu. 2021 alle 17:29

    In una recente intervista al programma I Lunatici su Radio 2, Arrigo Sacchi, uno che di calcio ne sa qualcosa, ha detto che nel vocabolario internazionale del calcio ci sono solamente due parole italiane: “libero” e “catenaccio”. Se teniamo presente che la prima parola è strettamente funzionale alla seconda, possiamo dire che dal punto di vista tattico, la scuola calcistica italiana è storicamente impostata sull’erigere un vallo e non far passare il nemico.

    Come potevamo pensare diversamente? Da secoli la nostra penisola ha visto calare i barbari, è stata attaccata sulle coste dai turchi e dai pirati barbareschi, ha visto Francia e Spagna battersi per la supremazia. Secoli e secoli di invasioni non potevano che influenzare il nostro modo di essere e, quindi, anche il nostro modo di giocare a calcio. E abbiamo così iniziato a pensare prima di tutto a difenderci, chiudendoci in quello che ha preso il nome di “catenaccio”, un po’ come quella catena che gli imperatori di Costantinopoli hanno usato per secoli per impedire al nemico il passaggio per il Corno d’Oro. E lanciandosi poi in contropiede, colpendo il nemico come una folgore quando meno se lo aspetta: nel calcio, per vincere, bisogna pur sempre fare goal, oltre a non subirne.

    E gli “italiani catenacciari”, troppo attenti a difendersi più che a fare un bel gioco, sono stati oggetto di critiche da tanti allenatori stranieri, magari di Paesi il cui calcio, come per noi, richiama la loro storia e la loro cultura. D’altronde, il calcio champagne, frizzante e pomposo, non richiama lo spirito di grandeur dei francesi? La macchina da guerra tedesca, che anche quando è in netto vantaggio continua, con grande fisicità, a portare avanti la partita, non usa la stessa mentalità dei panzer? E potremmo dire lo stesso dei lanci lunghi all’inglese, per un Paese abituato a scavalcare la manica, o ai tocchi di prima spagnoli, in una scenografia degna di un Paese in cui l’arte barocca si è ben radicata. Per non parlare poi dei brasiliani, il cui futbol bailado sembra quasi giocato al ritmo della samba.

    Proprio nel 1982, fu un allenatore, stavolta argentino, come Cesar Menotti a criticare bruscamente il catenaccio italiano, accusando il nostro schema di gioco di “passatismo cronico”. Eppure, Enzo Bearzot mise in campo contro quella stessa Argentina di Menotti il catenaccio, vincendo 2-1 contro i pronostici. E soprattutto, vincendo il mondiale.

    Noioso, poco “giochista”, poco spettacolare ed eccessivamente prudente. Tante sono state le accuse rivolte contro il catenaccio nel corso degli anni, eppure non vi è dubbio che sia senz’altro uno strumento efficace, se messo in campo con tutti i crismi. Non è un caso che il grande Gianni Brera sosteneva che la partita perfetta è quella che finisce 0-0, perché significa che nessuna delle due squadre ha commesso errori: questo fa capire bene come la mentalità italiana, nel calcio, sia quella per cui la difesa viene prima di tutto, e l’errore sia quello di subire un goal, più ancora di quello di non segnarne.

    Tanti hanno provato a uscire dalla logica del catenaccio. Lo ha fatto Arrigo Sacchi nel 1994, lo sta facendo Roberto Mancini in questo europeo: è infatti decisamente “poco italiano”, per dirla alla Stanis La Rochelle, esordire con due 3-0 consecutivi. Ed è anche “poco italiano” vedere come gli Azzurri siano riusciti sia contro la Turchia (che, al contrario, ha cercato di mettere in campo una partita ultra-difensiva) che contro la Svizzera prima di tutto a non permettere all’avversario di giocare e costruire.

    Ma parlare di catenaccio come sinonimo di noia è forse ingeneroso. Chiudersi dietro può essere per prudenza, ma anche per istinto di sopravvivenza, in una partita che può assumere toni epici. Ne sa qualcosa José Mourinho, che da allenatore dell’Inter, si trovò al Camp Nou a dover fronteggiare uno dei più forti Barcellona di sempre con un uomo in meno, venendo così costretto a erigere una vera e propria cinta muraria attorno all’area di rigore, resistendo al martellante cannoneggiamento dell’undici catalano. Ne venne fuori una partita gladiatoria, che ha finito per attentare alle funzioni cardiache dei tifosi interisti e a quelle epatiche dei blaugrana, eliminati nonostante la vittoria per 1-0. Probabilmente è in quel momento che l’Inter ha vinto il Triplete, perché dopo una partita del genere nessuno l’avrebbe potuto fermare.

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