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La lunga storia italiana delle vittime di mafia

Per paura o incompetenza: ecco perché da Garibaldi in poi la mafia macchia di sangue lo stivale

Di TPI
Pubblicato il 19 Lug. 2016 alle 09:27 Aggiornato il 19 Lug. 2018 alle 11:39

Quando nel 1860 i Mille sbarcarono a Marsala ebbero un gran da fare per convincere i siciliani ad appoggiarli nella propria impresa. Quella spedizione fu decisiva per il Risorgimento italiano ma, per sovvertire i Borboni, si ritenne necessario scendere a patti con i potentati siculi, soprattutto latifondisti, e la malavita locale. Da un accordo con la mafia, così nasceva l’Italia unificata. Ironia della sorte, il primo caduto per mano mafiosa fu proprio un garibaldino, un tale Giuseppe Montalbano unitosi alla spedizione vittoriosa: era il 3 marzo 1861.

Mancavano ancora due settimane alla proclamazione del Regno d’Italia e da allora le vittime della mafia hanno accompagnato la storia italiana. In gergo scientifico si usa il termine anglosassone proxy per indicare un’approssimazione in grado di restituire informazioni su qualche dato o evento. Il caso classico è l’utilizzo del Pil come approssimazione del livello di benessere di una nazione.

Ecco, potremmo considerare la distribuzione delle vittime nel tempo come una buona proxy del fenomeno mafioso in Italia. In particolare, tre sono le fasi in cui si osservano picchi nell’andamento del numero di persone uccise: corrispondono al secondo dopoguerra e, soprattutto, ai primi anni Ottanta e Novanta.

Certo non tutti gli anni sono stati uguali. Così nel solo 1982, mentre gli italiani venivano storditi dalle imprese di Rossi, Tardelli e Scirea, e i corleonesi perfezionavano la loro scalata ai vertici della mafia siciliana, il numero delle vittime è più che raddoppiato. Ma è dalla caduta del muro di Berlino che hanno iniziato a fare sul serio.Un po’ per la guerra che Cosa nostra dichiarò allo stato in seguito al maxi-processo, un po’ per l’ascesa dei casalesi in Campania. Seguirono numerose faide interne che hanno prodotto altre vittime innocenti, la maggior parte cadute durante regolamenti di conti tra clan rivali o scambiate per obiettivi.

Poi vennero gli anni Novanta, e ce li ricordiamo bene. Sono gli anni delle stragi, soprattutto i primi, con il biennio 1990-1991, che da solo registra 87 morti per mafia in due anni, un triste record della storia nostrana. Il trend è rimasto alto per tutta la decade, salvo calare con l’arrivo del nuovo millennio. Per sapere se la mafia esista ancora oggi, basta sfogliare qualsiasi quotidiano e leggere di arresti e infiltrazioni mafiose in ogni angolo d’Italia, a ogni livello istituzionale.

Certamente se osserviamo il fenomeno negli ultimi cinque anni, possiamo dire che le cosche mietono meno vittime innocenti che in passato. Tuttavia è sbagliato pensare che di mafia in Italia non si muoia più. L’ultimo omicidio di un innocente è avvenuto a Ponticelli, alle porte di Napoli, ed è datato giugno 2016. Non stiamo proprio parlando degli anni delle lotte tra corleonesi e palermitani. 

Certo è finita l’epoca delle stragi e delle morti eccellenti, ma guai ad abbassare la guardia. Guardando l’elenco dei nomi e leggendo gli articoli che raccontano le loro storie, un dato emerge chiaramente: la mafia uccide per vigliaccheria o per incompetenza. Non ci sono altre motivazioni ascrivibili nella storia delle vittime innocenti per mano dei movimenti mafiosi in Italia. Per errore perché i loro assassini sono fondamentalmente maldestri, grossolani. Sparatorie mal riuscite o persone confuse per altre. 

Ma la mafia uccide soprattutto per vigliaccheria, perché le vittime designate sono tutte persone coraggiose che essa teme. Servitori dello stato che non hanno paura di fare il proprio dovere, imprenditori che si oppongono al pizzo, giornalisti che scrivono senza timore ciò che scoprono: insomma, donne e uomini di valore. Come Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta, che persero la vita in via Mariano D’Amelio esattamente ventiquattro anni fa. Passando per la stradina palermitana è ancora possibile trovare il nome Borsellino sul citofono.

Viene da pensare al boato assordante che deve esserci stato quel 19 luglio. Immaginare il rumore che seguì, frenetico, fino a scemare nel silenzio. Il silenzio di chi come Borsellino non necessitò di espedienti per mostrare coraggio, di chi fa il proprio dovere e tira dritto per la sua strada. Senza far rumore, che tanto non serve.

*A cura di Dario Amodeo, biographer.it

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