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Una etiope a Roma

Per le seconde generazioni di immigrati, l'Italia è un paese che frena le ambizioni e il desiderio di integrazione

Di Giovanna Carnevale
Pubblicato il 1 Mag. 2014 alle 00:00

“L’Italia è il Paese ideale per gli stranieri che si accontentano di lavorare in nero. Ma per chi è più ambizioso e vuole integrarsi davvero, una premiazione non arriva mai”.

Margherita, ventiseienne italo-etiope che vive a Roma da quando ne aveva dieci, parla della sua esperienza di studentessa straniera in Italia a un ritmo così spedito che sembra non accorgersi nemmeno delle lacrime che continuano a bagnarle il viso. Rallenta solo pochi istanti, quando dice di dover riconoscere a malincuore che scegliere di studiare è stato un errore.

Nata ad Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia, Margherita è cresciuta fino a dieci anni con lo zio e la cugina prima di raggiungere l’Italia nel 1998, grazie a un permesso di ricongiungimento familiare. Il padre, italiano, non ha voluto riconoscerla. E la madre, etiope, si è trasferita da sola a Roma subito dopo averla messa al mondo.

Dopo sedici anni che risiede sul territorio italiano, non è ancora riuscita ad acquisire la cittadinanza. Per molto tempo, infatti, non ha trovato un lavoro abbastanza stabile che le permettesse di raggiungere il reddito annuo minimo di 8.300 euro, necessario per presentare la richiesta. E una volta ottenuto anche questo requisito, la sua domanda si è arenata nella palude della burocrazia italiana, dove statisticamente trascorrono tre anni in attesa di una risposta dell’amministrazione.

Oggi Margherita è una dei circa 6.500 stranieri che studiano all’Università “La Sapienza” di Roma, l’ateneo italiano con il maggior numero di studenti internazionali. Secondo il rapporto 2013 dell’European Migration Network, in Italia sono oltre settantamila gli stranieri, comunitari e non, che frequentano l’università, e rappresentano il 3,8 percento sul totale degli iscritti contro una media dell’Unione europea che si attesta all’8,6 percento.

Solo il 40,7 percento di loro, però, dice di voler rimanere in Italia una volta conclusi gli studi, perchè le prospettive di carriera, qui, sono davvero poco attraenti. In base ai dati Istat, infatti, se tra gli italiani i redditi da lavoro delle persone laureate sono del 75 percento più elevati di quelli delle persone con licenza elementare, tra gli stranieri la differenza si riduce all’8 percento.

In altri termini, l’aver studiato per oltre quindici anni si traduce, per un laureato non italiano, in uno stipendio medio di 1.039 euro mensili, cioè appena ottanta euro in più rispetto a quanto guadagna uno straniero con un’istruzione scolastica minima. A ciò si aggiunge il fatto che nel 76,4 percento dei casi, i lavoratori stranieri sono inseriti in posizioni operaie e non qualificate, nonostante il 42,3 percento di essi possieda un grado di formazione superiore a quanto richiesto dalle mansioni svolte.

Mentre Margherita parla, la sua preoccupazione per il futuro è tangibile proprio come la frustrazione che non nasconde di provare ogni anno, quando un poliziotto del Commissariato di Tor Sapienza controlla che abbia superato i sei esami previsti dal corso di laurea prima di concederle un nuovo permesso di soggiorno per studio, su pagamento di duecento euro.

I diciotto anni, per lei, sono stati quelli della scelta più difficile. Studiare o lavorare, per dimostrare allo Stato di essere autosufficiente e guadagnarsi col tempo la cittadinanza. Ha scelto la prima alternativa, e il prezzo non sa ancora quando finirà di pagarlo, perché se entro sei mesi dalla fine degli studi non troverà un lavoro con contratto regolare sarà costretta a ritornare in Etiopia, di cui ha dimenticato anche la lingua.

Per convertire il permesso di soggiorno per studio in uno per motivi di lavoro, però, non basta aver trovato un impiego, perchè spetta a un decreto governativo stabilire il numero degli stranieri non comunitari che possono lavorare in Italia. Stando ai dati dell’European Migration Network, nel 2011 i casi di conversione di un permesso da studio a lavoro sono stati ottocentoventicinque. Nel 2010 solamente quarantasei, e nel 2008 appena ventisette.

“L’Italia è un Paese che scoraggia”, dice Margherita. “Lo fa con i suoi cittadini e ancora di più con gli stranieri. Ecco perché i più ambiziosi vedono l’Italia solo come una terra di passaggio per raggiungere il nord Europa. In realtà non pensano affatto di vivere qui per sempre”.

Lei, invece, non si vede in nessun altro posto che nel nostro Paese, perché ama il sole di Roma e adora la pasta, che per lei “è come una droga”. Quello che chiede, non è che le sia concessa la cittadinanza nell’immediato, ma che le sia reso più facile il percorso verso il suo raggiungimento, all’interno di una società che sia davvero pronta ad accoglierla.

Diversamente dagli immigrati che hanno raggiunto l’Italia dopo la maggiore età per studiare o lavorare, Margherita è cresciuta qui e ha assorbito la cultura italiana. La sua vita e i suoi progetti per il futuro, però, risentono di tutto il peso che l’etichetta “seconde generazioni di immigrati” può generare, perchè nonostante lei si senta un’italiana a tutti gli effetti, per la società continua a essere una semi-estranea.

Negli ultimi dieci anni, il numero dei minori stranieri in Italia ha visto una crescita esponenziale del 332 percento, passando da quasi 230mila nel 2000 a circa 993mila nel 2011. Tra questi, quelli nati sul suolo italiano da genitori stranieri sono aumentati del 132,4 percento rispetto al 2002.

La legge italiana n. 91 che disciplina l’acquisto della cittadinanza, però, non è più stata modificata dal 1992. E continua a essere legata strettamente al principio dello ius sanguinis, in base al quale la cittadinanza si trasferisce per genitorialità a prescindere dal luogo di nascita.

È poi prevista l’acquisizione per residenza sul territorio nazionale, che deve essere ininterrotta e, nel caso di stranieri non comunitari, di almeno dieci anni. Ma requisiti più specifici, come la capacità reddituale e la meritevolezza sociale, sono variabili e stabiliti dal Ministero dell’Interno tramite circolari.

Per Sabika Shah Povia, giornalista freelance italiana con origini pakistane, la legge sulla cittadinanza andrebbe senz’altro modificata, ma evitando di adottare il criterio esclusivo dello ius soli. “Molti immigrati”, spiega, “verrebbero in Italia solo per partorire e garantire ai propri figli un futuro migliore”.

Per lei, che è cresciuta in una comunità di pakistani e che non riusciva a spiegarsi, da piccola, perché i passanti la guardassero con occhi diversi, il problema principale delle seconde generazioni in Italia è soprattutto quello della società e della volontà degli immigrati stessi di cambiare le cose.

“Molto spesso”, spiega Sabika, “sono loro i primi ad essere riluttanti verso l’integrazione”, complice anche un’immagine molto razzista dell’Italia all’estero. “In molti vengono in Italia per mettere un po’ di soldi da parte e poi tornare nel proprio Paese, ma non prendono in considerazione i figli eventualmente nati qui, che non sanno che i loro genitori vivono l’Italia solo come una terra ospite. Tutto questo rende molto più complicato il processo di integrazione”.

Ma se da una parte, quindi, spetta agli stranieri tentare un approccio più aperto e responsabile nei confronti dell’Italia, dall’altra è la nostra società che dovrebbe impegnarsi a sviluppare una sorta di “filantropia della comunità”. Creare, cioè, un ambiente più accogliente per gli stranieri, soprattutto più scuole dove si insegni loro l’italiano e si agevoli l’integrazione.

Sabika Shah Povia ha scoperto solo due anni fa di appartenere alla categoria delle “seconde generazioni di immigrati”, e in realtà non le dà fastidio, nonostante sia nata in Italia e non sia un’immigrata. “Gli italiani hanno sempre bisogno di dare definizioni specifiche per comprendere e affrontare un fenomeno”, spiega. Ma sarebbe più corretto, aggiunge, parlare semplicemente di seconde generazioni di italiani.

Quegli italiani, cioè, che sono nati o cresciuti in Italia, e che se non hanno potuto acquisire la cittadinanza dai genitori, faticano a farsi riconoscere e a riconoscere sé stessi. Stranieri, come sono, nel Paese delle radici familiari. E stranieri, per assurdo, nella terra che vivono.

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