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Un’economia ancora competitiva

Secondo l'Economist l'industria italiana ottiene buoni risultati nonostante la crisi, specialmente nella moda e nel design

Di Anna Ditta
Pubblicato il 8 Ott. 2013 alle 09:53

Negli ultimi dieci anni l’economia italiana non ha dato segnali di crescita e adesso il PIL del Paese è più basso di quanto non fosse nel 2001, prima che l’euro cominciasse a circolare. Il costo unitario del lavoro è aumentato rispetto alla concorrenza, e questo induce a pensare che dietro l’angolo ci attenda un calo di produttività.

Eppure, secondo l’Economist, altri elementi suggeriscono che l’Italia non stia facendo così male come si potrebbe pensare. Il giornale sottolinea come il PIL italiano sia sceso molto meno durante la crisi dell’euro rispetto a Paesi come Grecia e l’Irlanda. L’Italia non ha avuto una crisi immobiliare dura come quella di altre nazioni e ci sono motivi di ottimismo sulla sua posizione fiscale. Lo Stato italiano ha inoltre un importante surplus nel suo bilancio, una rarità in gran parte dell’Europa.

“Ancora più interessante”, scrive l’Economist, “è che le esportazioni italiane abbiano retto sorprendentemente bene durante la crisi, in un Paese che affronta spesso seri problemi di competitività.” In particolare, il settore della moda si è rivelato notevolmente resistente: marche come Gucci non hanno mai attraversato condizioni migliori, e secondo il Commercial Performance Index dell’UNCTAD (la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo) , l’Italia è rimasta, durante la crisi, il maggiore esportatore al mondo nel settore tessile, nell’abbigliamento e nella pelletteria. Anche per i macchinari e i prodotti non elettronici l’Italia è ancora al secondo posto nel mondo, dietro alla Germania.

“Allora perché l’Italia registra risultati negativi sulla competitività relativamente ai costi, se gran parte della sua industria sta facendo abbastanza bene?”, si chiede il settimanale.

La risposta si troverebbe in un report pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale la scorsa settimana, da cui risulta che il modo in cui viene misurata tradizionalmente la competitività di un Paese non è più sufficiente a stabilire quanto economie come quella italiana siano competitive.

Il rapporto distingue infatti tra “cost competitiveness” e “technological competitiveness”: mentre nel primo caso un salario alto fa aumentare i costi della produzione e quindi è negativo per l’industria, nel secondo caso l’aumento del salario è da collegare all’innovazione tecnologica o di design e quindi alla creazione di posti di lavoro altamente qualificati. In tal caso, un aumento dei costi unitari del lavoro può essere un segnale della creazione di un’economia sempre più innovativa e competitiva.

La soluzione ai problemi di disoccupazione in Italia potrebbe essere quindi cercare di coltivare industrie di alta qualità. Ma questo sarebbe molto più facile a dirsi che a farsi, dal momento che il nostro Paese necessita ancora di riforme strutturali.

“L’innovazione, il design, la moda, che sono parte del carattere nazionale dell’Italia, sembrano essere frenati dalle norme e dagli imbrogli di alcuni politici”. conclude l’Economist. Purtroppo “come la scorsa settimana ha dimostrato, dovrà trascorrere ancora un po’ di tempo prima che l’Italia goda di uno stabile governo riformatore.”

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