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Schiavi cinesi in Italia

Il business degli immigrati cinesi sfruttati nelle fabbriche italiane o nel mercato del sesso. Il reportage del The Daily Beast

Di Anna Ditta
Pubblicato il 18 Dic. 2014 alle 09:52

Attraversando via Pistoiese, a Prato, non si sente il profumo di aglio soffritto ma l’odore dell’olio di arachidi e del maiale dongpo.

I negozi di alimentari non vendono pasta o passata di pomodori, ma riso e germogli di bambù. Le insegne dei negozi sono scritte in verticale, a caratteri cinesi, e gli abitanti del quartiere sono quasi tutti asiatici.

“Non c’è integrazione qui”, dice Giovanni Braccini, 73 anni, nato e cresciuto a Prato. “Loro vivono dalla loro parte, noi dalla nostra”, spiega.

L’Istat ha stimato che sono oltre 210mila i cinesi che vivono in Italia e di questi solo 41mila sono legalmente registrati. Nell’ultimo decennio l’immigrazione cinese in Italia è triplicata e il numero delle attività commerciali gestite da cinesi è cresciuto del 232 per cento, dal 2003 a oggi.

Molti degli immigrati cinesi sono giunti in Italia affidandosi a trafficanti di esseri umani, i quali hanno costruito un mercato di operai cinesi specializzati nel settore tessile da inserire nelle fabbriche italiane che producono capi d’abbigliamento a Milano, Napoli e Prato.

Chi trova lavoro nelle industrie è spesso trattato come uno schiavo e costretto a lavorare in condizioni disumane. Alcuni edifici fatiscenti di Prato nascondono fabbriche illegali in cui gli operai cinesi sono costretti a orari di lavoro insostenibili. In caso di controllo della polizia, una guardia avvisa chi si trova all’interno e gli immigrati vengono nascosti in seminterrati che sembrano celle.

Lo scorso marzo un ragazzo cinese di circa 16 anni, che lavorava in una fabbrica, si è presentato al pronto soccorso in condizioni di malnutrizione e gravemente ferito da un guasto a un macchinario. Il giovane ha raccontato alle autorità di aver lavorato 7 giorni a settimana, per un euro all’ora, dalle 7 del mattino alla mezzanotte.

In seguito, alcuni video girati da lavoratori cinesi che collaboravano con la polizia hanno mostrato condizioni di lavoro incredibili, rivelando talvolta come bambini piccoli dormissero su materassi in terra tra topi e scarafaggi.

Chi invece non trova posto in una fabbrica è costretto a prostituirsi per procurarsi da vivere, come le tre immigrate irregolari che si sono gettate dal primo piano di un appartamento a Milano, nell’agosto del 2013. Fuggivano dai trafficanti che le sfruttavano come schiave del sesso per uomini d’affari cinesi.

Ma non tutti i sogni degli immigrati cinesi diventano incubi. Grazie alle fabbriche legali di Prato, l’area è diventata la più importante in Europa per la colorazione di tessuti e esporta i prodotti in tutto il mondo.

I produttori cinesi della città hanno recentemente promesso di investire 20 milioni di euro in un comune italiano-cinese quale centro di ricerca finanziato dal governo di Pechino che sia volto a formare i lavoratori delle industrie tessili e di abbigliamento.

Coloro che sostengono il progetto, come il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, dicono che la collaborazione porterebbe posti di lavoro regolarizzati e aiuterebbe anche la lotta contro i prodotti di contrabbando.

Chi invece si oppone, come il sindaco di Prato Roberto Cenni, ritiene che il progetto fornirebbe ai cinesi solo un altro modo per “saccheggiare l’economia” italiana.

La giornalista americana Barbie Latza Nadeau ha raccontato sul Daily Beast il business degli immigrati cinesi sfruttati nelle fabbriche italiane o nel mercato del sesso.

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