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La migrante 26enne morta carbonizzata e le arance insanguinate di Rosarno

Credit: AFP PHOTO / ALBERTO PIZZOLI

Nel rogo scoppiato nella baraccopoli di San Ferdinando ha perso la vita Becky Moses, una migrante nigeriana che era lì per lavorare. San Ferdinando è stato e continua ad essere uno dei ghetti più grandi d’Italia

Di Lara Tomasetta
Pubblicato il 30 Gen. 2018 alle 18:19 Aggiornato il 31 Gen. 2018 alle 15:33

Nella notte tra sabato 27 e domenica 28 gennaio una donna di 26 anni è morta carbonizzata a causa di un rogo scoppiato nel ghetto di San Ferdinando, vicino Rosarno, in Calabria.

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Becky Moses, questo il nome della ragazza, era arrivata in Italia due anni fa dalla Nigeria. A Riace era stata ospite di un centro di accoglienza straordinario; nel piccolo paese guidato dal sindaco Mimmo Lucano stava mettendo radici ma la commissione territoriale le aveva negato la richiesta di asilo politico.

Quindi, avendo ricevuto il diniego e non potendo essere trasferita in uno Sprar, Becky aveva fatto ricorso, ma non era riuscita a vincerlo. Aveva perciò deciso di andare via da Riace e di spostarsi a San Ferdinando, dove c’erano altri nigeriani suoi conoscenti.

 

L’ipotesi più plausibile è che, come già accaduto più volte, le fiamme si siano propagate da un braciere accesso per scaldarsi nelle notte fredda della Piana e che la ragazza sia rimasta intrappolata in una baracca.

In quella zona sorgono due tendopoli: una vecchia, che esiste dal 2010 e che molti molti lavoratori stagionali non hanno mai voluto abbandonare, e una nuova, un campo attrezzato, realizzato mesi fa grazie alla collaborazione tra diverse istituzioni ed enti locali.

Nella vecchia tendopoli, andata quasi completamente distrutta dal rogo di sabato notte, vivevano circa 1.800 persone, in tende e baracche affollate e gelide. Nella nuova, invece, risiedono almeno 500 migranti.

In una fabbrica abbandonata a poca distanza, 300 lavoratori vivono in condizioni di estremo disagio, i letti e i materassi a terra ammassati uno accanto all’altro. Chi non trova posto qui vive in decine di casolari abbandonati nelle campagne della Piana. Sia nelle tendopoli che nei casolari, non c’è acqua, né riscaldamento, né raccolta di rifiuti.

Dopo l’incendio è stata realizzata una tensostruttura con 250 posti letto; inoltre è stato ricavato un dormitorio in un grande magazzino allocato nell’area industriale all’interno della quale la tendopoli è nata.

L’incendio ha distrutto le baracche di circa 600 persone, ferendo inoltre due donne che attualmente sono ricoverate in ospedale.

Le baraccopoli ospitano i braccianti che vengono impiegati nella raccolta delle arance e dei mandarini per pochi euro l’ora.

A gennaio di otto anni fa, una rivolta vide contrapposti forze dell’ordine, cittadini e migranti: a fare scoppiare la protesta il ferimento di due extracomunitari con un’arma ad aria compressa e pallini da caccia.

Centinaia di auto distrutte, cassonetti divelti e svuotati sull’asfalto, ringhiere di abitazioni danneggiate: scene di vera e propria guerriglia urbana che fecero da sfondo alle condizioni inumane di alcune centinaia di extracomunitari, lavoratori dell’agricoltura, accampati in una vecchia fabbrica in disuso e in un’altra struttura abbandonata.

Poco più di due settimane fa, proprio in concomitanza con l’ottavo anniversario degli scontri del 2010, “Medici per i diritti umani” (Medu), organizzazione di volontariato impegnata in numerose attività di assistenza sanitaria, aveva denunciato come nella Piana di Gioia Tauro nulla o quasi sia cambiato nel corso degli ultimi anni.

San Ferdinando è stato e continua ad essere uno dei ghetti più grandi d’Italia.

“I braccianti continuano a vivere in condizioni pietose, lavorando in larga parte in nero e per pochi euro al giorno”, si legge nel report.

Le condizioni di vita degli abitanti della baraccopoli ancora una volta evidenziano le difficoltà nell’avviare percorsi di integrazione per rifugiati e richiedenti asilo, in particolare per quanto riguarda l’inserimento lavorativo, a otto anni dalla rivolta che nel gennaio del 2010 vide contrapposti forze dell’ordine, cittadini e immigrati. 

Una situazione di degrado, quella della baraccopoli, che periodicamente sfocia in incendi che causano morti e feriti.

I volontari e gli operatori di Medu hanno visitato 99 migranti nel mese di dicembre e hanno stilato un rapporto della situazione.

“Si tratta di giovani uomini con un’età media di 29 anni provenienti dall’Africa sub-sahariana occidentale, in particolare da Senegal, Mali, Costa d’Avorio, Guinea Conakry, Burkina Faso, Gambia, Ghana, Mauritania, Nigeria e Togo, giunti in Italia da meno di tre anni”, si legge nel rapporto.

Un dato particolarmente allarmante è quello relativo al lavoro nero: “L’80 per cento delle persone visitate non ha un contratto di lavoro e nel restante 20 per cento dei casi – prosegue il rapporto – pur esistendo un contratto formale, si assiste ad uno sfruttamento nel rapporto di lavoro, nella paga, nel versamento dei contributi per le giornate lavorate e nell’orario di lavoro”.

Si vive nei silos a Rosarno. credit: AFP PHOTO / Carlo Hermann

La metà dei lavoratori è pagata a cassetta (1 euro per i mandarini, 0,50 centesimi per le arance), la restante metà a giornata, con una paga che varia dai 25 ai 30 euro al giorno, molto inferiore ai 42-45 euro stabiliti dai contratti provinciali e nazionali di lavoro, per un impegno lavorativo di 7-8, a volte 10 ore al giorno.

Dal rapporto di Medu emerge che pochi sanno cosa sia una busta paga, circa il 28 per cento, e quei pochi non sanno se la riceveranno. 

Le condizioni di vita nei ghetti a Rosarno. Credit: AFP PHOTO / Carlo Hermann / AFP PHOTO

Degrado, baracche, rifiuti la fanno da padrone nella ex tendopoli di San Ferdinando, mentre azioni di ripristino della legalità, lotta al caporalato e facilitazione dell’integrazione dei migranti non hanno avuto alcun risultato concreto. 

Il bilancio del primo anno dall’approvazione della legge sul caporalato, datata ottobre 2016, non è stato positivo: la lotta allo sfruttamento del lavoro agricolo ha faticato a raccogliere risultati nonostante la normativa, un protocollo nazionale e una rete del lavoro agricolo di qualità.

“Quello che è accaduto Rosarno è una vergogna. un episodio che mostra una situazione strutturale. Ogni anni i braccianti arrivano a Rosarno per lavorare ma non c’è alcuna politica abitativa”, spiega Yvon Sagnet, promotore del primo sciopero dei braccianti stranieri in Puglia con il quale è riuscito ad accendere i riflettori sul fenomeno che ha portato alla creazione della legge.

“Questi episodi si verificano ogni anno. Chiediamo allo stato di applicare le leggi che esistono e i protocolli firmati che intendono contrastare il caporalato. La legge 199 sul caporalato è stata disattesa, la magistratura sta facendo un grande lavoro ma questa battaglia ha bisogno dello stato: non può esserci solo un versante repressivo, ma ne serve anche uno preventivo”, prosegue Yvon.

La questione non attiene esclusivamente le attività dello stato che devono porre le condizioni per un’accoglienza abitativa e un inserimento nel tessuto sociale, ma coinvolge anche la responsabilità delle aziende che impiegano i migranti, le quali dovrebbero collaborare ed essere presenti in modo permanente per fornire migliori condizioni lavorative.

“Al momento i rapporti di forza sono completamente a sfavore dei lavoratori. A Rosarno, dove la situazione è più drammatica, una tendopoli non può risolvere la questione. Non è lo strumento adeguato e le aziende si stanno tirando indietro”. 

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