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“Ho comprato casa a 175mila euro e l’ho rivenduta a 140mila. Ora me ne chiedono indietro 90mila”

La paradossale storia di Irene e la protesta del Comitato Venditori 18135 sui Piani di zona, davanti a Montecitorio

Di Anna Ditta
Pubblicato il 9 Nov. 2018 alle 19:21 Aggiornato il 18 Apr. 2019 alle 08:38

Comitato venditori 18135 | “È triste, non ci si dorme la notte”. Irene* ha un cartello in mano. C’è scritto: Ho comprato casa a 175mila euro. L’ho rivenduta a 140mila. Dov’è l’indebito arricchimento?

Nel suo caso, la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 18135 del 2015 ha avuto l’effetto di creare un doppio paradosso giuridico.

Come centinaia di altre famiglie romane, Irene ha venduto una casa costruita in diritto di superficie nell’ambito di un Piano di zona, ad Acilia. L’aveva comprata circa 7 anni prima attraverso un’agenzia immobiliare, prendendo un mutuo.

“Ho avuto l’esigenza di rivendere casa, quindi ho accettato un prezzo più basso rispetto a quello a cui l’avevo acquistata”, racconta Irene a TPI.it.

Tempo dopo, però, il nuovo acquirente l’ha citata in giudizio e pretende la restituzione di 90mila euro, perché quella casa – che per legge era cedibile solo a determinate condizioni – non poteva essere venduta al di sopra di un prezzo calmierato, chiamato prezzo massimo di cessione.

Il problema è che Irene, a sua volta, ha speso quella cifra – anzi di più – per comprarla.

Anche lei, in teoria, potrebbe rivalersi su chi le ha venduto l’immobile a un prezzo più alto del dovuto, ma l’azione per ingiustificato arricchimento nel suo caso è prescritta, perché il fatto è accaduto più di dieci anni fa.

Così Irene si trova incastrata nel mezzo.

Sulla base dell’orientamento della Cassazione, un giudice potrebbe infatti condannarla a restituire un presunto “arricchimento” che lei in realtà non ha avuto.

“Io come gli altri non sapevo nulla di questo vincolo di prezzo sulla casa. L’ho comprata a libero mercato, attraverso un’agenzia”, racconta Irene a TPI.it.

“Chi l’ha comprata ora richiede indietro 90mila euro. Una casa di due camere, cucina, bagno, posto auto e cantina… è fuori dal mondo. E non posso neanche rivalermi sul precedente proprietario”.

Giovedì 8 novembre Irene è andata a manifestare insieme al Comitato Venditori 18135 davanti a Montecitorio, per chiedere al legislatore di intervenire sulla situazione.

Qui sotto un video dalla manifestazione, con il discorso della vice-presidente del Comitato Anna D’Ambrosio:

TPI.it aveva già denunciato la questione dei piani di zona in alcuni precedenti articoli, in cui ha riportato anche la posizione degli acquirenti

Il Piano di zona è uno strumento messo in campo negli anni Sessanta e Settanta per garantire l’accesso alla casa a chi non poteva permettersi di acquistarla a prezzo di mercato. In proposito si parla di edilizia convenzionata o agevolata.

In alcuni casi, lo Stato trasferiva a basso costo la proprietà di terreni su cui costruire, in altri casi forniva terreni a cooperative o società costruttrici in diritto di superficie per 99 anni, a un prezzo più basso, insieme a mutui per costruire a prezzi agevolati.

Le abitazioni dei Piani di zona avrebbero dovuto essere vendute a un prezzo agevolato, chiamato prezzo massimo di cessione, a chi ne avesse i requisiti, secondo quanto risposto dalla legge Bossetti Gatti n.865 del 1971 e dalle convenzioni stipulate dai singoli comuni.

Tuttavia, per molti anni, il Comune di Roma, le banche e i notai hanno consentito che fosse possibile, per il primo assegnatario dell’alloggio, venderlo a un prezzo superiore a quello calmierato. Il Comune di Roma, all’inizio, ha anche emanato dei nulla osta per dare il via libera alla vendita.

A partire dal 2011 è stato però introdotto l’istituto dell’affrancazione, con cui i proprietari di immobili concessi in diritto di superficie potevano affrancare dal prezzo massimo di cessione il loro immobile, pagando una somma di qualche migliaio di euro al comune.

Nel 2015, con la sentenza 18135, pronunciata a Sezioni Unite, la Cassazione ha sancito che tutti i contratti di compravendita di questo tipo avevano violato una norma imperativa, non derogabile.

Di conseguenza, i venditori sono stati chiamati a restituire grosse cifre, che arrivano in alcuni casi anche a 300mila euro.

“Ho provato a chiedere all’acquirente di venirmi incontro, di farmi pagare le spese dell’affrancazione, così lui può rivendere il bene a prezzo di mercato ma lui ha rifiutato”, dice Irene. “È una speculazione inversa. Una speculazione inversa autorizzata”.

“Penso che chi ha venduto casa a me fosse in buona fede. Ma ora io mi trovo bloccata. Chiedo che ora queste vicende vengano regolamentate, non solo per il primo acquirente, ma anche per gli altri anelli della catena. Io sono stata presa a schiaffi, presa per i fondelli”, conclude Irene con rabbia.”

“Alcuni rappresentanti del Movimento Cinque Stelle hanno cominciato ad ascoltarci”, spiega Anna D’Ambrosio, vice-presidente del Comitato venditori. “Abbiamo incontrato Roberta Lombardi e Emanuele Dessì, quando parliamo con un politico lui sgrana gli occhi”.

“Anche gli acquirenti hanno ragione, noi non ce l’abbiamo con loro”, aggiunge. “Ce l’abbiamo con i notai e con il Comune, ma non possiamo fare nulla contro di loro. Noi siamo disponibili a pagare l’affrancazione pur di toglierci questo pensiero. Ma non è giusto. Occorre una sanatoria, un condono o un disegno di legge che annulli l’applicabilità della sentenza su questi casi. Non possiamo legalizzare questa speculazione”.

*Nome di fantasia. La persona intervistata ha chiesto di rimanere anonima.

La protesta del comitato venditori 18135. Credit: Anna Ditta
La protesta del comitato venditori 18135. Credit: Anna Ditta
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