Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
Home » News

Carte Bollate: testimonianze dei detenuti dal carcere di Milano | La paura del reintegro nella società

Come viene affrontato nelle carceri il tema del reinserimento post-pena? Il racconto dal carcere di Milano tra paure e speranze

Di Veronica Di Benedetto Montaccini
Pubblicato il 8 Gen. 2019 alle 14:49 Aggiornato il 26 Gen. 2019 alle 21:12

Inizia con questo articolo la collaborazione tra TPI e CarteBollate, il giornale scritto, pensato e finanziato dai detenuti del carcere di Bollate di Milano. 

Un carcere resta sempre un carcere. Ma Bollate è uno dei pochi istituti italiani che applica una legge del 1975, secondo la quale le porte delle celle, durante il giorno, possono restare aperte.  Si è sempre distinto nel promuovere una nuova cultura della detenzione e nel dedicare particolare attenzione al detenuto, creando canali di dialogo con la società civile. 

In quella che è la seconda Casa di reclusione di Milano (1100 detenuti e 100 detenute), si svolge da cinque anni il Laboratorio giornalistico condotto da Paolo Aleotti che si prefigge di avvicinare i detenuti all’uso dei mezzi di comunicazione di massa. Il magazine Carte Bollate è stato fondato nel 2002, la sua direttrice è Susanna Ripamonti, mentre l’art director è Federica Neeff.

TPI ospiterà sulla sua testata non solo articoli, ma anche podcast e altri lavori redatti dagli stessi detenuti, per raccontare il carcere senza filtri, dal suo interno. 

Ecco il primo episodio per TPI, “Quando il fuori spaventa” di Giacomo Pelliccia:

Capita spesso di pensare al dopo questo, un questo pesante, fastidioso, un questo non voluto ma il più delle volte cercato, nel nostro caso “questo” è il carcere, nudo, crudo, freddo, spesso invivibile.

Poi però se la condanna è lunga quasi ci si abitua agli stessi rumori, alla stessa intensità di luce che ci sveglia al mattino, ci si abitua addirittura al deambulare costante dei compagni che affollano le sezioni, tutto diventa uguale a tutto.

Presi da un po’ di coraggio si può addirittura provare a chiedere a quei compagni che hanno vissuto in questi posti per anni, cosa pensano del dopo, se una volta usciti dal contenitore che li ha isolati dal resto del mondo per una parte considerevole della loro vita sanno già cosa fare o dove andare, se tutti questi anni hanno fatto in modo che la pena sia valsa a qualcosa, se il carcere serve o se semplicemente torneranno a fare ciò per cui hanno abitato le atre galere. E lì nasce un’altra domanda: «hai paura di uscire?».

Abbiamo fatto un giro per le sezioni del carcere di Bollate provando a domandare a quelli più temprati: «Se uscissi domani come ti sentiresti?».La prima sensazione è stata di pessimismo e sfiducia: «non c’è futuro se il carcere non ti aiuta». A.D. 35 anni, che ha conosciuto anche le carceri di altri Paesi europei dice: «Se la società non offre strumenti concreti di reinserimento, una casa, un lavoro, inevitabilmente torni a fare quello che hai sempre fatto.

In Inghilterra, in Germania o nei Paesi nordici lo Stato accompagna il detenuto anche all’esterno, nel suo percorso di reinserimento. Qui non ti supportano nemmeno se sei tu a trovarti un lavoro esterno, che ti darebbe prospettive e che giustificherebbe pienamente la concessione di un articolo 21, che ti consenta di riavvicinarti al lavoro anche prima del fine pena. Sembra proprio che la parola reinserimento non esista nel vocabolario dell’istituzione penitenziaria».

Tra le persone interpellate poco meno della metà ha risposto di essere convinta «di rientrare in carcere entro un anno». Altri al contrario, che non rientrano nella cosiddetta categoria dei delinquenti abituali, la pensano diversamente. D.B, alla prima carcerazione, dice: «Mai più. Piuttosto mangio pane e cipolla, ma non commetterò più gli errori che mi hanno portato in carcere».

I più fiduciosi sono quelli che fuori hanno una vita regolare, una casa, una famiglia, un lavoro che li attende. «Il mio timore – dice E.B., anche lui in carcere da pochi mesi – è che il mondo che ho lasciato fuori dai cancelli nel frattempo si dimentichi di me o quanto meno si abitui alla mia assenza. Non ho una lunga condanna e ho sempre pensato che avrei iniziato presto a essere ammesso al lavoro esterno, ma adesso vedo che questo obiettivo si allontana, che i tempi della burocrazia stanno allontanando questo obiettivo, anche se ho tutti i requisiti per raggiungerlo.

Allora vedo svanire le possibilità lavorative che adesso avrei, temo che all’esterno si abituino a considerarmi un detenuto e a fare a meno di me». L’obiettivo degli ex-regolari è quello di tornare a prendere il proprio posto, in una società da cui si sono esclusi commettendo un reato, ma di cui continuano a sentirsi parte.

Appartengono a questa categoria anche quelli che hanno commesso reati gravi, come un omicidio, un gesto unico e generalmente irripetibile, ma che ha definitivamente deviato la traiettoria della loro esistenza. Sull’altro fronte, tra i lungodegenti delle patrie galere, ci sono i recidivi e i plurirecidivi, quelli che hanno iniziato in riformatorio la loro carriera carceraria e che hanno vissuto entrando e uscendo di prigione.

Sono quelli che hanno scelto di vivere fuori dalle regole, che preferiscono la galera alla piattezza di una vita fatta di regole, di doveri e di normalità e anche se hanno passato in carcere la maggior parte della propria esistenza, costretti a rispettare norme molto più rigide di quelle che regolano la società esterna, non rinunciano alla loro identità di ribelli. Sono incazzati con giudici, sbirri e avvocati e si riconoscono solo nella comunità dei loro simili, le persone che hanno fatto le loro stesse scelte. L.B, cinquantenne, detenuto di lungo corso, dice esplicitamente: «A me piace questa vita, la malavita. So quali sono i rischi che corro, sono consapevole della sofferenza che dò ai miei familiari, ma questa è la mia vita e non ne conosco altre».

Altri non hanno nessuna sensazione, all’idea di uscire sono felici e basta. Altri ancora non sanno cosa accadrà, ma quelli che più fanno riflettere sono quelli che hanno risposto: «Ho paura».Ma come si può aver paura di uscire da un carcere? La paura è una sensazione che si avverte quando non si conosce qualcosa, il nuovo per esempio spaventa.

Il punto è proprio questo: se anziché subire il carcere lo si utilizza, ci si mette in discussione, si scopre di avere potenzialità ignorate, può succedere di avvertire un cambiamento, che nulla ha a che fare con quello che eravamo prima che la libertà ci venisse tolta. In questi casi uscire e dover pensare a un futuro senza reati fa paura, l’idea di modificare i comportamenti che hanno portato al nostro arresto ci rende più fragili, insicuri, quasi inermi di fronte a un futuro «normale».

Paura vissuta da molti ed esplicitata da pochi, perché è assodato che cambiare vuol dire adeguarsi alle mille sfaccettature che una vita diversa impone, e questa prospettiva spaventa. Il carcere, in base alla nostra Costituzione, dovrebbe avere la funzione di reinserire.Può anche aiutare ad avere meno paura del dopo? La maggior parte dei detenuti non si sente supportata in questo percorso: «Quando esci è come se ti scaraventassero contro un muro e anche se avessi voglia di cambiare vita, ti troveresti solo porte sbattute in faccia».

Ma ci sono anche quelli che vogliono provarci: «No, il carcere potrebbe funzionare se chi lo vive facesse in modo di utilizzarlo, per riprendere in mano la propria vita. La paura di uscire è giustificata, non bisogna mai però dimenticare che cambiare, se pur difficile, è possibile, le paure se sane passano, responsabilità, famiglia, lavoro sono ottimi rimedi per un nuovo inizio».

Il nostro compagno C.S. ci ha particolarmente colpiti spiegando come le dinamiche che il carcere ha prodotto sulla sua persona lo hanno portato ad avere paura del dopo: «Ci si sente urlatori silenziosi quando il sistema con la sua lentezza rende tutto più lontano, il circuito carcere trascina in un vortice che mai avresti pensato di vivere, il tempo che hai a disposizione rende ancor più palpabile la paura del domani, forse la paura deriva anche da un senso di abbandono che gli istituti ti fanno calzare come scarpe troppo strette da portare, se passi svariati anni in una gabbia senza che nessuno ti prepari a quando si apriranno le porte è normale che la paura, il dubbio su cosa fare, arrivi come uno schiaffo in pieno viso».

Forse dovrebbero cambiare le cose, forse noi dovremmo cambiare. E forse la paura di uscire è soltanto la paura che si ha di rientrare.

 

Leggi anche: “Quanti morti nelle carceri italiane?”
Leggi l'articolo originale su TPI.it
Mostra tutto
Exit mobile version