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Morte di Giuseppe Uva: assolti in appello tutti gli imputati

Giuseppe Uva

Confermata la sentenza di primo grado: per i magistrati la morte dell'operaio di Varese non fu causata dalle condotte degli agenti che lo portarono in caserma

Di Luca Serafini
Pubblicato il 31 Mag. 2018 alle 16:56

Sono stati tutti assolti in appello gli imputati per la morte di Giuseppe Uva, l’operaio di Varese morto il 14 giugno 2008, il giorno dopo il suo arresto e dopo aver passato una notte in ospedale.

Questa sentenza conferma in pieno quella di primo grado. Gli imputati sono stati assolti perché “il fatto non sussiste”. A processo c’erano i due carabinieri che avevano fermato Uva quella sera, Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco, e altri sei poliziotti: Vito Capuano, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Focarelli Barone, Bruno Belisario e Gioacchino Rubino.

Per Righetto e Dal Bosco la procura aveva chiesto 13 anni, per gli altri poliziotti 10 anni.

Giuseppe Uva era stato fermato il 13 giugno 2008 perché, in una strada di Varese, stava spostando alcune transenne. Dopo essere stato portato in caserma, fu disposto per lui un trattamento sanitario obbligatorio.

Uva fu quindi trasferito in ospedale, dove morì la mattina successiva per arresto cardiaco.

Secondo la procura, che aveva contestato agli imputati i reati di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona, Uva morì, tra le altre cose, “a causa di un’aritmia provocata dalla violenta manomissione sulla sua persona col trasferimento coatto in caserma, anche a prescindere dalle eventuali percosse subite e dalle lesioni riscontrate sul suo corpo”.

Sarebbe stato quindi lo stress provocato da un trasferimento in caserma non motivato (Uva non aveva commesso alcun reato), ad aggravare la sua patologia cardiaca fino a provocarne la morte.

Secondo la ricostruzione accusatoria, i due carabinieri volevano punire Uva perché quest’ultimo sosteneva di avuto una relazione con la moglie di uno di loro.

Nel corso del processo di primo grado e di appello non sono state raccolte prove sufficienti per dimostrare che Uva fosse stato percosso dagli agenti. Tuttavia, come detto, per i pm il fatto non era determinante per stabilire le responsabilità degli imputati.

La difesa ha parlato di un “processo mediatico”, con ricostruzione prive di fondamento e amplificate da giornali e televisioni.

Uno dei testimoni chiave del processo è stato Alberto Biggiogero, l’amico di Giuseppe Uva che era in giro con lui a Varese quella sera e condotto anche lui in caserma. Biggiogero, nel processo, raccontò che uno degli agenti, al momento del fermo, disse a Uva: “Proprio te cercavo, questa notte non te la faccio passare liscia”.

Bigioggero, inoltre, sostenne di aver udito le urla di Uva in caserma, che si lamentava delle percosse subite. La procura, nel processo di primo grado, non lo aveva considerato attendibile, chiedendo l’assoluzione degli imputati.

Nel processo d’appello, invece, il sostituto procuratore Massimo Gaballo ha sostenuto  che Biggiogero, nonostante i suoi numerosi problemi legali al consumo di alcool e di droghe, “fosse capace di intendere e di volere, come stabilito da un consulente in aula”. Una tesi però non accolta dai giudici.

Nel febbraio del 2017, Alberto Biggiogero uccise il padre a coltellate nella sua abitazione di Varese. Proprio due giorni fa, il 29 maggio, è stato condannato con rito abbreviato per questo delitto a 14 anni di carcere.

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