Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
Home » News

“La peste dei gay”, vivere con l’Aids in Italia dal 1984 a oggi

Piergiorgio Mazzoli è stato uno dei primi a essersi infettato in Italia. Racconta a TPI la sua vita con questa malattia

Di Lara Tomasetta
Pubblicato il 20 Feb. 2017 alle 12:05 Aggiornato il 1 Dic. 2019 alle 10:13

Piergiorgio Mazzoli, milanese, ha da pochi giorni compiuto 60 anni. Un compleanno festeggiato combattendo la malattia con cui convive da oltre tre decenni: l’Aids.

Piergiorgio è stato tra i primi italiani a essere infettato dall’Hiv, quando le cure erano praticamente inesistenti. Nonostante ciò, è sopravvissuto e oggi racconta a TPI cosa significa vivere con questa malattia e come è cambiato l’atteggiamento del nostro paese nei confronti dei sieropositivi.

Come ti sei accorto della malattia?

Avevo 27 anni quando ho fatto il test, nel 1984. Me ne sono accorto con sorpresa perché molti miei amici erano ammalati ma io stavo bene. Decisi, preoccupato, di fare il test, anche se negli ultimi anni avevo avuto solo rapporti protetti. Il test in Italia era uscito solo l’anno precedente, nel 1983. Restai sbigottito quando scoprii di essermi infettato, evidentemente era accaduto anni prima e il virus era rimasto silente.

Milano fu uno dei primi centri urbani ad essere colpito dalla diffusione del virus…

All’epoca si usava dire “quella roba là che c’è in America”. Sembrava infatti che il virus venisse da lì. Diversi amici si erano infettati oltreoceano con rapporti sessuali non protetti. Ma non c’erano cure negli anni Ottanta e molti di loro morirono. Le prime medicine erano molto pesanti, con effetti collaterali dannosi per l’organismo. Una vera agonia.

Che prospettiva di vita ti diedero i medici?

Ricordo perfettamente che i dottori mi diedero un solo anno di vita. Avevo contratto la malattia almeno tre anni prima: pronosticare un’aspettativa di vita a quei tempi era molto complesso, ma formularono questa tempistica. Fu una cosa estremamente drammatica, folle.

Quale fu la tua reazione? Come trascorresti quell’anno di vita?

Mi stavo laureando in architettura, cominciai a litigare con tutti. Vivevo in attesa della fine, amici che mi dicevano di aver dormito male e con dolore alle gambe e dopo qualche settimana morivano, altri che lamentavano problemi ai reni e dopo un mese anche loro morti. C’era da uscire completamente di testa, mi dicevo “se vedo che peggioro, mi ammazzo”.

In che modo si affrontava un problema così grande negli anni Ottanta?

A quei tempi la malattia era contratta soprattutto da uomini sposati con figli che avevano una doppia vita e andavano con altri uomini. Molti pensavano di scappare, di fuggire da quella terribile verità che avrebbe svelato tutto. La malattia ha tirato fuori gli aspetti comportamentali delle persone che non ci si poteva immaginare, paradossali.

Come sei andato avanti?

A un certo punto non ho più voluto fare analisi e avvicinarmi agli ospedali. Stavo bene, tanto che cominciavo a credere avessero sbagliato il risultato del test. Poi un mio amico, laureato in medicina, decise di aprire un centro dedicato a queste malattie all’Ospedale San Raffaele di Milano. Mi chiese di sottopormi a una sperimentazione come soggetto sieropositivo che non presentava particolari sintomi e provare alcuni farmaci.

Ai tempi c’era solo l’Azt, il primo farmaco antivirale, era molto pesante e rovinava l’organismo. Mi convinsi che era giusto prestarmi alla sperimentazione anche perché un po’ credevo fosse ingiusto che io non ero morto come gli altri. Cominciai con la sperimentazione del primo farmaco retrovirale: fu pesante e mi fece star male, iniziai a pensare che i farmaci avevano peggiorato la situazione, risvegliando la malattia. Solo molti anni dopo mi resi conto che probabilmente sarei morto senza quelle medicine.

Avevi raccontato della malattia?

Lo avevo detto ad amici e conoscenti con reazioni molto diverse. Chi diceva che non dovevo confessarlo a nessuno, che doveva essere nascosto; altri che facevano una sorta di caccia alle streghe, c’era una colpevolizzazione. All’inizio in famiglia non lo dissi, poi fui quasi costretto dalle circostanze. Mia sorella, biologa, mi aiutò molto soprattutto da un punto di vista scientifico.

Il resto delle persone come reagì?

Si faceva distinzione tra i malati che si erano infettati per trasfusioni di sangue e quelli che invece avevano scopato con gli uomini. C’era chi la chiamava “la peste dei gay” o il “castigo divino”. In quel momento le persone diventavano molto fragili, tutto era più disperato. Alcune reazioni da parte di amici malati faticai a spiegarmele. C’era chi dopo una vita di sessualità gioiosa e frenetica stava in casa ad ascoltare Radio Maria.

Oggi si crede ancora che l’Aids sia legata all’essere omosessuale, non a uno stile di vita?

La gente pensa che gli eterosessuali siano tutti sposati e tutti fedeli, come se i gay siano gli unici a fare sesso. La mia idea è che forse i gay fanno solo più sesso degli etero per tanti motivi: rapporti più brevi, più liberi. Ma non è quello il discrimine.

Nonostante tutto sei riuscito ad andare avanti con la tua vita…

Con molte difficoltà. La malattia rovina tutto, soprattutto le relazioni. Io e il mio compagno usavamo le precauzioni, lui si controllava spessissimo proprio per via della mia malattia. Dopo un test gli dissero che nonostante le precauzioni si era infettato. Non era vero, ma ormai il rapporto si era logorato per questa notizia. Oggi sono fortunato e ho una relazione stabile da oltre dieci anni.

E oggi com’è la situazione?

Chi si infetta ora resta comunque sconvolto dalla notizia. A me sembra che nonostante tutto, si affrontino le stesse fasi: un anno di rimozione completa del fatto e poi la lenta accettazione. Ho testimoniato anche che le terapie non funzionano con tutti, ho amici che sono morti nonostante le cure, ma comunque una persona che si infetta adesso ha meno problemi.

Come si pongono le persone che scoprono che sei malato?

L’approccio di dirlo e di mettersi a nudo paga. In parte perché mostra agli altri che si è una persona che sta bene con sé stessa, che vive bene. Io l’ho sempre detto: ditelo, risolvete un sacco di problemi. Fate anche una selezione delle persone di cui vi circondate. Non so quante persone idiote o cattive avrei potuto incontrare, e l’ho evitato.

Adesso come sta andando con le terapie?

La cura non si interrompe mai, ero molto contento in questi ultimi tre-quattro anni perché non avevo grossi effetti collaterali. Avevo avuto la lipodistrofia in passato, ma non avevo mal di testa, diarrea e poi ero totalmente negativizzato, cioè non potevo infettare in normali rapporti sessuali. Il mese scorso, però, gli esami sono peggiorati e ho alcuni problemi ai reni che mi hanno costretto ad allentare la terapia con farmaci meno aggressivi. Fra tre mesi vedrò se questi farmaci mantengono azzerata la replicazione del virus.

In Italia quanto si rischia? 

Dalle statistiche sembra ci sia un certa leggerezza nei comportamenti. C’è una parte numerosa di casi non ancora diagnosticati e individuati, che è quella più pericolosa. Non sanno di essere malati e vanno in giro a fare sesso.

**Non restare fuori dal mondo. Iscriviti qui alla newsletter di TPI e ricevi ogni sera i fatti essenziali della giornata.**

Leggi l'articolo originale su TPI.it
Mostra tutto
Exit mobile version