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Provenzano, la Corte Ue contro l’Italia: “Negati i diritti umani”

I giudici di Strasburgo ha condannato l'Italia per aver imposto il regime carcerario del 41 bis al boss fino alla sua morte, violando il suo diritto di non essere sottoposto a trattamenti degradanti

Di Futura D'Aprile
Pubblicato il 25 Ott. 2018 alle 11:44

Il 25 ottobre la Corte europea dei diritti umani ha emesso una sentenza di condanna contro l’Italia per aver “negato i diritti umani di Bernardo Provenzano“.

L’Italia ha infatti deciso applicare il regime di carcere duro, noto come 41bis, al boss Bernardo Provenzano dal 23 marzo 2016 fino alla sua morte, avvenuta a luglio 2018.

La Corte europea ritiene che il Ministero della giustizia italiano abbia violato il diritto di Provenzano a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti.

Nella stessa sentenza, però, i giudici Strasburgo hanno specificato che la decisione di continuare la detenzione di Provenzano non ha leso i suoi diritti.

Provenzano è morto il 13 luglio 2016 mentre era detenuto al regime di 41 bis nell’ospedale San Paolo di Milano, dopo un lungo periodo di malattia.

In Italia erano nate numerose polemiche sulle condizioni di detenzione del boss mafioso.

I medici avevano più volte ribadito che Provenzano era “incompatibile con il regime carcerario”, aggiungendo che “l’assistenza che gli serve è garantita solo in una struttura sanitaria di lungodegenza”.

Gli avevano infatti diagnosticato un grave stato di decadimento cognitivo, lunghi periodi di sonno, rare parole di senso compiuto, eloquio assolutamente incomprensibile, quadro neurologico in progressivo, anche se lento, peggioramento.

In funzione delle condizioni di salute del suo assistito, l’avvocato Rosalba Di Gregorio aveva chiesto, senza riuscire ad ottenerla, la revoca del regime carcerario duro e la sospensione dell’esecuzione della pena.

L’avvocato, prima della morte di Provenzano, aveva presentato due istanze di revoca del carcere duro e tre di sospensione dell’esecuzione della pena, ma erano state tutte respinte.

Chi era Bernardo Provenzano

Con la sua morte avvenuta nella mattina del 13 luglio 2016 il boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano si è portato con sé molti dei misteri irrisolti nella storia italiana. Era nato a Corleone nel 1933 e divenne Capo dei capi dopo l’arresto di Totò Riina nel 1993.

Prima dell’arresto nel 2006, la sua latitanza era durata 43 anni, dal 9 maggio del 1963. Quella mattina di maggio, quattro sicari della cosca di Luciano Liggio – Giuseppe Ruffino, Calogero Bagarella, Giovanni e Bernardo Provenzano – si erano dati appuntamento all’alba per uccidere un esponente del clan rivale del dottor Navarra.

“Elemento scaltro, coraggioso e vendicativo, si sposta sempre con due pistole alla cintola”: così la polizia descriveva il giovane Provenzano. Nel 1969 uccise con ferocia il boss rivale Michele Cavataio, “Il cobra”, colpevole di aver scatenato la prima guerra tra le famiglie mafiose, spaccandogli il cranio con il calcio della mitragliatrice prima di finirlo con un colpo di pistola.

Per la violenza con cui falcidiava i suoi nemici fu soprannominato Binnu ‘u tratturi, Bernardo il trattore: dove passava ‘u tratturi, si diceva, non cresceva più l’erba.

Dopo la cattura di Liggio nel 1974 e al termine di una guerra di mafia che tra il 1943 e il 1961 aveva insanguinato Corleone con oltre 52 omicidi e un numero imprecisabile di lupare bianche, Salvatore Riina prese il potere del clan dei Corleonesi e fu affiancato da Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano.

I tre scatenarono una nuova guerra di mafia che li portò al vertice di Cosa Nostra: i tre leader divennero leader della Cupola mafiosa e Totò Riina il Capo dei capi.

Fu l’inizio della stagione stragista che culminò nel 1992 con l’uccisione sull’autostrada per Capaci del magistrato Giovanni Falcone e in via d’Amelio del collega Paolo Borsellino, e successivamente con gli attentati nel 1993 a Roma, Firenze e Milano.

Dopo l’arresto di Totò Riina nel 1993 e dei rivali alla successione a Capo dei capi Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, Provenzano divenne l’unico padrino di Cosa Nostra. Da quel momento cambiò strategia e pose fine al periodo dello stragismo, perché era convinto che la mafia potesse essere più efficace infiltrandosi all’interno della società.

É il periodo dell’invisibilità, in cui Binnu ‘u tratturi visse nell’ombra in un casolare arredato in maniera spartana, con un letto, una piccola cucina, un bagno e la macchina da scrivere con cui compilava i pizzini, unico mezzo di comunicazione con il mondo esterno per il padrino, anche se nel processo sulla trattativa Stato-mafia secondo la ricostruzione di Massimo Ciancimino, figlio del politico Vito legato a Cosa Nostra, Provenzano avrebbe goduto, fin dal 1992, di una sorta di immunità territoriale che gli consentiva di spostarsi liberamente durante la latitanza.

Nel 2002 si ebbe notizia che si fosse fatto operare sotto il falso nome Gaspare Troia a Marsiglia per un cancro alla prostata, secondo alcune fonti dall’urologo Attilio Manca, poi trovato misteriosamente morto per un’apparente overdose. In quell’occasione le forze dell’ordine riuscirono ad entrare in possesso di una foto del boss, applicata sulla finta carta d’identità.

Le autorità riuscirono a catturarlo pochi anni dopo, nel 2006. nella masseria di Corleone dove viveva. Poi la detenzione in regime di carcere duro 41bis, la malattia e un tentativo di suicidio nel 2012, fino alla morte per cancro alla vescica il 13 luglio 2016.

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