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Chi ha ancora il coraggio di parlare di Giulio Regeni?

Un altro anno si chiude e lascia aperte troppe domande su quella morte di cui non si fa più parola tra le fila istituzionali italiane. Il "caso" imbarazza ed è ormai solo un ingombrante problema tra Italia ed Egitto, da mettere a tacere

Di Lara Tomasetta
Pubblicato il 14 Dic. 2017 alle 14:21

“Giulio era una persona, non un caso. Giulio era un giovane uomo di questi tempi, era avanti su certe cose. Giovani come lui ce ne sono tanti, trovare la verità per Giulio significa che i cittadini italiani si sentano sicuri. Se non andiamo a fondo resterà sempre come un fantasma che aleggia, e anche una paura”.

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Gli ultimi giorni di dicembre scorrono liquidi e veloci verso la fine di questo 2017 ma le parole dei genitori di Giulio Regeni, il giovane ricercatore trovato morto al Cairo il 3 febbraio 2016, restano ben salde nella memoria e fanno male per la loro triste verità.

Un altro anno si chiude e lascia aperte molte, troppe domande su quella morte di cui non si fa più parola tra le fila istituzionali italiane.

“Il caso”, “l’incidente”, “il problema” imbarazza ed è ormai ingombrante per le sempre più floride relazioni commerciali e politiche che legano Italia ed Egitto. Il paese giusto dove investire, il paese nel quale inviamo turisti e quello al quale vendiamo ingenti quantitativi di armi.

Sono passati tre mesi esatti dal ritorno del nostro ambasciatore al Cairo.

Giampaolo Cantini – insediatosi in ambasciata il 14 settembre scorso – non ha trasmesso alcuna informazione sulle indagini e intanto i politici egiziani, tra cui il ministro degli Esteri Sameh Shoukry, lasciano intendere senza troppi giri di parole che alcuni documenti non arriveranno mai.

Che quei video ripresi dalla telecamera di sorveglianza alla stazione metro non verranno mai consegnati.

E a nulla valgono le promesse o gli annunci del presidente egiziano Al Sisi, o le dichiarazioni del ministro degli Esteri Alfano.

Se la tutor di Giulio a Cambridge, la professoressa Maha Abdelrahman, a gennaio risponderà alle domande della Procura di Roma, siamo davvero convinti che non sarà solo un buon espediente per rabbonire chi chiede la verità? Siamo certi che non sarà solo un modo per dare un “contentino” che pulisce la coscienza collettiva?

E come mai nessuno si domanda più come sia possibile che uno dei legali del team Regeni al Cairo, l’avvocato Ibrahim Metwally, da tre mesi sia rinchiuso in una delle peggiori carceri egiziane, al pari di un pericoloso criminale?

Nel 2017, chi doveva impegnarsi per trovare quella verità ha seguito per filo e per segno la strategia che normalmente viene adottata dai servizi segreti egiziani: “procrastinare, finché tutti dimenticano”.

Tergiversare e temporeggiare, fino a quando nessuno si domanderà più perché un ragazzo italiano di 28 anni fu trovato morto il 3 febbraio 2016 in un fosso alla periferia del Cairo, con il corpo devastato da torture indicibili, colpito negli anni migliori della sua vita.

“Quando abbiamo visto il corpo”, raccontavano i genitori di Giulio, “ci ha subito dato il senso che quella persona, Giulio, non è stata rispettata. Si pensa al male fisico ma poi ci è venuto in mente un Giulio che soffriva, ma pensava di uscire da quella situazione. Che era in balia degli altri, senza dignità. Lo sputo, per la nostra civiltà, rappresenta un segno di disprezzo totale: ecco, noi abbiamo letto quel disprezzo sul corpo di Giulio”.

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